Se vuoi la pace…

Se vale il paradosso per cui ci vuole una guerra perché si invochi la pace, dovremmo scavare nelle ragioni (o non ragioni) dei conflitti, non limitandoci a denunciare le singole guerre in corso, in cui sono in gioco interessi giganteschi di supremazia ideologica, identitaria e finanziaria.
Si intitola “Why War” il film-saggio di Amos Gitai presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.
Perché la guerra?
La domanda, secca, chiama in causa la pulsione aggressiva individuale, sfogata, all’ennesima potenza, nell’eliminazione dell’altro da sé.
All’indomani dell’attacco di Hamas e della controffensiva di Israele di un anno fa, Gitai, interrogandosi sulle radici di quel conflitto, si è immerso nella lettura della celebre corrispondenza che due giganti del pensiero come Albert Einstein e Sigmund Freud si scambiarono sul tema, nel 1932.
Lo storico carteggio ha ispirato al regista il lavoro filmico su una questione più che mai attuale, rivisitata alla luce delle lettere in cui il fisico della relatività e l’esploratore del sottosuolo psichico ragionarono sulla possibilità di evitare la guerra.
La protagonista (Irène Jacob), “intossicata” dalle immagini belliche che escono dagli schermi, si arrovella sulla pervasività dei conflitti.
Le arriva da ogni lato, la guerra, se la sente dentro e addosso: gronda sangue come la tintura che dai capelli cola sulla pelle, impiastricciandole le mani. Potente metafora dell’ipervisibilità della guerra, su cui Gitai insiste, chiedendosi che cosa provochi.
Viene da pensare, per contrasto, alla non diffusività mediatica di pratiche di pace che, se rilanciate a livello macro dalle micro realtà dove si sperimentano con successo, attiverebbero cambiamenti nei gesti, nelle parole, nelle azioni.
Il varco della pace si apre tra il fatalismo e l’utopia, tra l’ineluttabilità del male e il desiderio di immaginare un mondo “altro”.
L’idea che la pace sia, semplicisticamente, assenza di guerra, oscura il dinamismo intrinseco alla pace che, mai statica e mai definitiva, è un processo creativo permanente, all’interno di una conflittualità naturale che è anche umana e innerva il movimento dialettico.
In linea di principio, siamo tutti per il “cessate il fuoco”, ma ribadire il valore della pace non basta a costruirne una che non sia solo una parentesi, anche prolungata, tra una guerra e l’altra, in cui si finisce per “abbassare la guardia”, e l’ordine apparente delle cose si disintegra.
L’impegno per la pace, di questi tempi, si scontra con il degrado della comunicazione via social soprattutto, avvelenata dall’odio che radicalizza le posizioni affossando il dialogo.
“Si vis pacem para pacem”: se vuoi la pace, prepara la pace, riscrivendo l’antico motto.
La pace non è la quiete dopo la tempesta: viene prima che prema l’urgenza di sedersi al tavolo negoziale.
Il cantiere culturale dove essa prende una forma, si sforma e reinventa, di nuovo possibile, va seguito nel tempo, sui terreni di vita, non lasciati deteriorare in incubatori di collisione violenta.
Al Museum of Peace dell’Università di St. Andrews, in Scozia, si promuove la conversazione intorno alla pace sollecitando a domandarsi che cosa sia, come immaginarla, rappresentarla, farla e mantenerla, con opere di manutenzione.
Alla base vi è il pensiero che confrontarsi su differenti visioni di pace possa impegnare ciascuno a fare la sua parte nel favorirla.
L’artigianato di pace che lì si manifesta, dà visibilità all’energia trasformante di una pace messa in circolo dalla “poesia”, nella diversità delle forme creative.
Dove fallisce la politica (organismi internazionali ed enti storicamente mediatori vedono oggi indebolito il loro ruolo), alla poesia pertiene – e Amos Gitai in “Why War” questo dimostra – di offrire un’alternativa critico-ideativa, dal “basso”.
Come scrisse Freud ad Einstein, “Nel frattempo, possiamo dire a noi stessi: tutto ciò che promuove lo sviluppo della cultura, lavora anche contro la guerra”.

Annarita Cecchin

In foto una scena del film (foto www.mymovies.it)