Serve una cultura del benessere lavorativo diversa
L’Institute for Public Policy Research (IPPR), uno dei principali c.d. “think tank” del Regno Unito (ovvero centri di ricerca impegnati nell’analisi e soluzioni di problemi specialmente in ambito economico, politico e sociale), ha recentemente proposto di introdurre sanzioni per i datori di lavoro che non proteggono la salute fisica o mentale dei dipendenti. L’IPPR ha […]
24 Ottobre 2024
L’Institute for Public Policy Research (IPPR), uno dei principali c.d. “think tank” del Regno Unito (ovvero centri di ricerca impegnati nell’analisi e soluzioni di problemi specialmente in ambito economico, politico e sociale), ha recentemente proposto di introdurre sanzioni per i datori di lavoro che non proteggono la salute fisica o mentale dei dipendenti.
L’IPPR ha spesso ribadito l’importanza di considerare la salute dei lavoratori come fattore determinante per la prosperità economica nonché oggettivo metro di misura di valutazione delle capacità dirigenziali.
Una notizia deflagrante sul piano mediatico ma meno su quello normativo dove, in molti Paesi occidentali, leggi e normative (a supporto del benessere fisico e mentale dei lavoratori) esistono già.
Il problema è che raramente vengono applicate.
In Italia, ad esempio, il Codice Civile prevede l’obbligo del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e morale dei dipendenti, normativa da cui discendono tutta una serie di oneri regolamentari interni, nomine di referenti e responsabilità.
Anche la recente ordinanza del 16 febbraio 2024 della Corte di Cassazione ha stabilito che un ambiente lavorativo nocivo può giustificare un risarcimento dei danni anche in assenza di mobbing vero e proprio o, detto in altre parole, il datore di lavoro è sempre obbligato a prevenire condizioni dannose per i lavoratori.
Ma dove arriva l’onda normativa e dove realmente si arresta?
Non servono statistiche per misurare il polso di ambienti lavorativi sempre più compromessi e dove la sponda sindacale attrae sempre meno fiducia e risposte.
La causa sembra essere l’atavicità di tali atteggiamenti da un lato prevaricanti e dall’altro di sottomissione che ne ha consolidato un approccio di naturale, continuativa e tramandata abnegazione.
D’altro canto il limite di produrre prove tangibili, in un contesto dove sia la vittima che i testimoni sono soggetti a facile ricattabilità, ha di fatto silenziato i lavoratori che raramente denunciano tali abusi mentre le parti dirigenziali, impunite, conservano e consolidano le loro pessime abitudini.
Allora è senz’altro un bene che un autorevole ente di ricerca ne richiami l’attenzione mediatica generale su un tema così centrale e trasversale ma tutto ciò non basta: serve una cultura del benessere lavorativo diversa che formi le gesta e le menti di tutti i lavoratori (dipendenti e dirigenti).
Ma anche misure che concretamente ne incoraggino: giudizi dei collaboratori associati a misure incentivanti.
Sarebbe una vera e propria rivoluzione.
Di quelle che tutti ne auspicano ma che, in fondo in fondo, nessuno davvero ci crede.
(foto Calvarese/SIR)
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