La povertà: un luogo in cui il Vangelo parla ad alta voce

Nella Grecia del IV Secolo a.C., agli albori del pensiero filosofico, Aristotele rifletteva con i suoi allievi sulla felicità, partendo da questa ipotesi: “Perché non chiamar beato un uomo che agisca secondo perfetta virtù e che sia provvisto sufficientemente di beni esteriori, non per un accidentale periodo di tempo, bensì lungo tutta la sua vita?” (Etica Nicomachea, libro I).
In questa antichissima “ricetta” troviamo temi interessanti: c’è il senso della precarietà dell’esistenza umana, che si rispecchia nel desiderio di una stabilità nel tempo della felicità; c’è la coscienza dell’importanza della formazione, del lavoro su se stessi, del maturare moralmente, secondo una misura ideale che è data dalla “perfezione”, dalla “pienezza” potremmo tradurre ancora; e c’è la consapevolezza della necessità di beni esteriori, di quel che occorre per vivere, qui però secondo una misura che è quella della “sufficienza”, non dell’abbondanza, del “quanto basta” più che del pieno.
Da Aristotele il pensiero cristiano erediterà questo specifico avvertimento: l’accumulo di beni esteriori, al di là del necessario per una vita buona – la miseria, privando di educazione e cultura spegne anche la dimensione morale della persona – è fonte di crescenti preoccupazioni e di schiavitù interiori.
Lo ribadirà anche Agostino: “Lo spazio ci presenta cose da amare, che poi il tempo ci porta via, lasciando nell’anima una folla di immagini che stimolano la cupidigia ora verso un oggetto ora verso un altro. Così l’animo diviene inquieto e travagliato nel suo vano desiderio di possedere ciò da cui è posseduto”. (Agostino, De vera religione, 35,65).
Ecco il rovesciamento che già Aristotele aveva intuito: non è l’uomo a possedere la ricchezza, ma, nell’accumulo, è la ricchezza a possedere l’uomo e a diventare spesso l’idolo a cui l’animo finisce per legarsi, perdendo, in particolare, la virtù della giustizia, la capacità di condividere e di distribuire.
La stessa affermazione categorica di Gesù, “Beati i poveri”, ci porta nel cuore di questa lezione antropologica antica sulla felicità/beatitudine, ed impariamo allora che la “povertà” porta con sé due declinazioni diverse, eppure tra loro collegate.
Povertà è anzitutto libertà interiore dai beni, in una condizione – quella umana – di precarietà e di necessità fisiologica di consumo: il povero non è libero dai bisogni, nessuno lo è, ma per affrontarli guarda alle relazioni, non all’autosufficienza – illusoria – promessa dall’accumulo.
Capiamo che non è una “ricetta” che parla di misure, ma di attitudini e di scelte esistenziali: confidare negli altri, confidare in una comunità, in una “rete” diremmo oggi, significa sperimentare il senso della

Giovanni Grandi

fides, della fiducia, che è anche fede e affidamento.
Chi vive “da povero” sa, in fondo, che nessuno si salva da solo, né con le proprie sole forze.
La seconda declinazione di povertà è però proprio quella che discende dal tradimento del senso spirituale, che origina cioè dal suo contrario, dall’avidità e dall’accumulo, dall’ansia di controllo e di potere, tutti tratti che il monachesimo ha ricondotto – ad esempio, nella lezione sui vizi capitali di Gregorio Magno – all’unica radice della superbia, alla pretesa dell’autosufficienza, all’illusione di potersi salvare con le proprie forze.
Da questa radice nasce dunque, lo intuiamo facilmente, anche la miseria materiale: è l’accumulo da parte di alcuni che porta molti altri ben al di sotto di quella sufficienza già immaginata da Aristotele.
Ecco la povertà che ci rimanda all’ingiustizia sociale, all’iniqua distribuzione delle ricchezze (che cresce nel mondo contemporaneo, anche nelle società democratiche), all’inimicizia, alle diverse forme di guerra per il controllo delle risorse.
Se teniamo presente questa antica lezione antropologico-spirituale comprendiamo anche perché nella Chiesa si è fatta strada l’idea che la povertà sia un “luogo teologico” prima ancora che un fenomeno sociale a cui rispondere attraverso le opere di carità.
Che si parta dall’esperienza dell’ingiustizia o che si parta da quella del proprio rapporto con i beni materiali, dall’indubbia fatica nel rimanere liberi dai legami che ogni possesso tende a intessere, in breve si giunge ad interrogarsi sul senso della propria stessa esistenza, su quel che la fa fiorire e su quel che la mortifica, e qui troviamo la differenza radicale tra autosufficienza e relazioni, tra il tenere solo per sé e il condividere, tra l’isolarsi e il legarsi, tra il combattersi e il cooperare, tra il dividere e l’unire.
La povertà è letteralmente un luogo in cui il Vangelo parla ad alta voce: è ai poveri, a chi riconosce le proprie esperienze di schiavitù interiori o esteriori, che Gesù, ritratto dall’evangelista Luca nella sinagoga di Nàzaret, annuncia il compimento della profezia di liberazione di Isaia.
È in chi vive il desiderio di essenzialità e di sobrietà senza riuscire a vincere le proprie abitudini, così come in chi vive gli effetti materiali dell’ingiustizia sociale senza trovare soccorso che il lieto annuncio si fa ancora più udibile.
Possiamo allora aggiungere una considerazione, che ci può riportare alle attenzioni della Cinquantesima Settimana Sociale dei Cattolici in Italia vissuta a Trieste, tra il 3 e il 7 luglio 2024: i poveri in attesa di liberazione non sono un soggetto passivo e incompetente. Sono – in qualche modo lo siamo tutti, perché il veleno del male non risparmia nessuno – al contrario proprio coloro che ne sanno di schiavitù, che ne sanno di miseria, di solitudine, di guerra, di insicurezza, di mancata accoglienza.
Questo sapere amaro, ma niente affatto sterile, va a sua volta liberato, anzitutto dalla tentazione di trasformarsi in disperazione spirituale o in attesa di vendetta anziché in desiderio di vita buona per tutti. Ecco perché è un sapere a cui occorre anzitutto dare parola, perché l’amarezza possa depositarsi e uno sguardo più limpido e condiviso su ciò che fa male e su ciò che fa bene, anche nello sviluppo della vita civile, possa emergere e farsi proposta e progetto.
Dalla Settimana Sociale, tra le raccomandazioni elaborate dai Delegati per accrescere la partecipazione, non a caso si trova anche quella di “ripartire da chi oggi non ha voce, favorendo luoghi di ascolto e di inclusione per tutte le persone che si trovano in situazioni di fragilità”, e proprio in occasione dell’evento la Caritas diocesana di Trieste, coinvolgendo altre quattro Caritas della Delegazione Nord-Est ha sviluppato un percorso di progettazione partecipata sul tema “Diritto al lavoro, diritto al futuro”, con persone impegnate nel tradurre il loro amaro sapere in una risorsa per tutti. Sarebbe allora un errore politico – oltre che un fraintendimento spirituale – ridurre la povertà alla sola dimensione dell’indigenza, come se fosse solo un problema da risolvere, magari paternalisticamente.
Al contrario, la possibilità di elaborare un vivere sociale più umano, più centrato sulle relazioni che non sulle risorse, dipende proprio dall’ascolto che sapremo dare alle voci amare e dal modo in cui queste potranno partecipare all’elaborazione di un futuro più giusto per tutti.

prof. Giovanni Grandi, professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Trieste

(Foto Calvarese/SIR)