L’Assistenzialismo nemico della democrazia

Per affrontare il tema povertà e interrogarci sulle misure di contrasto più adeguate, è utile soffermarci sul significato che diamo alle parole povertà, poveri e assistenza.
Quando si pensi alla povertà, immediatamente si evoca la condizione di chi non accede ad alcuni livelli di consumo e non gode di condizioni di vita che vengono ritenute “adeguate” e prevalenti nella società di riferimento (povertà relativa), oppure si pensa al mancato raggiungimento di soglie di reddito e di accesso ai beni che garantiscano condizioni di vita sufficientemente salutari e dignitose (povertà assoluta). Se questi significati ci aiutano a riconoscere “condizioni” di povertà, assai diverso è invece etichettare tout court come povere le “persone” che versano in tali condizioni. L’esperienza di povertà ha il potere pervasivo di compromettere diverse dimensioni esistenziali, portando a subire e spesso interiorizzare il giudizio di “inadeguatezza” della propria condizione come connotato della propria sessa persona, a compenetrare i tratti di vita meno dignitosi con la stessa perdita della propria dignità. Lo stigma di povero, direbbe Goffman, in tal modo marchia interamente la percezione di sé.
Ecco, allora, che gli interventi di assistenza e di contrasto alla povertà devono dedicare particolare attenzione a modalità d’aiuto che non “impoveriscano” l’identità di chi è aiutato. Se povertà significa carenza, i “poveri” sono dunque per noi dei “carenti”, degli “inadeguati”, degli “insufficienti” a sé e agli altri? Questa prima riflessione ci mette in guardia da interventi assistenziali che, motivati dall’impegno di integrare deficit (materiali, economici, lavorativi ecc.), sanciscono con il gesto d’aiuto la minorità di chi lo riceve. Sarebbe, questo, un modo d’aiutare che la filosofa Elena Pulcini chiamava “dono avvelenato”, perché veicola, assieme all’elargizione, il messaggio di superiorità di chi dona e la soggezione passivizzante di chi riceve, portando con sé un sentimento di umiliazione, spesso accompagnata da vergogna o risentimento più che da sentimenti di gratitudine.
Chi, pur di ottenere i benefici materiali dell’assistenza, paga il “prezzo identitario” di sentirsi qualificato come povero assistito, in molte occasioni sperimenta il suggello sociale della propria impossibiltà/incapacità di essere all’altezza (sopra la soglia) di chi, invece, vive una condizione rappresentata come normale, adeguata, dignitosa. Così, la marginalità diventa perdita di riconoscimento delle proprie capacità e delle potenzialità di contribuire al benessere proprio e altrui. Questo tipo di assistito diviene “consumatore” dell’aiuto, ma non gli sono riconosciuti il valore e il diritto/dovere di partecipare alla realizzazione del bene comune. Inteso in tal senso, il termine “assistenzialismo” comprende relazioni d’aiuto tra coloro che (persone e/o istituzioni) assumono il compito di definire le condizioni di assistibiltà, le modalità e i contenuti dell’aiuto, e coloro a cui non resta che adeguarvisi, recitando al meglio (per ottenerne il massimo beneficio per sé) il copione di “assistiti”.
Sia ben inteso, non si intende sminuire il valore materiale dell’aiuto e la necessità reale di soccorsi economici e di risorse a chi si trovi in difficoltà.
Chi versa nel disagio soffre realmente ed è dovere di tutti concorrere ad alleviarne le sofferenze. Piuttosto, ciò che si vuole sottolineare è che il primo gesto reale d’aiuto non è la definizione unilaterale del bisogno da soccorrere, né l’erogazione di un beneficio, quanto piuttosto il riconoscimento della persona nella sua impegnativa battaglia di contrasto alla sua stessa condizione di povertà, il riconoscimento della sua dignità e del suo valore, per quanto le apparenze ne appannino l’evidenza.
Il benessere delle persone, argomentava il filosofo Honneth, si radica in primo luogo nel riconoscimento ricevuto nelle sfere affettiva, sociale e giuridica: affettiva, se c’è qualcuno che possa dire “mi occupo di te intessendo un legame di reciprocità e protezione reciproca”; sociale, se qualcuno giunga a dire “mi accorgo delle potenzialità che hai di contribuire alla nostra comune vita sociale, e le valorizzo implicandoti”; giuridica, se c’è chi possa affermare: “sei titolare di diritti e di rispetto della tua dignità comunque, come tutti, in quanto persona e non per le tue caratteristiche soggettive o per i tuoi (apparenti) meriti”.
Riprendiamo allora il termine assistenza, per depurarlo dall’ “ismo” (assistenzialismo) che porta alla deriva passivizzante e deresponsabilizzante, per valorizzarne invece il significato

Luigi Gui

etimologico di assistenza come “sedere accanto” (ad sistere). Assistenza così intesa, evoca la prospettiva della comunanza di posizione di fronte alla realtà. Significa condividere, stare assieme in un luogo e in uno spazio fisico, relazionale, sociale. Significa accostarsi per cogliere la prospettiva dell’altro, diversa e ulteriore dalla prospettiva di chi si candida ad assistere.
Quando si presuma di assistere qualcuno rimanendo fermi nel proprio punto di vista, senza cogliere le attese e le fatiche già presenti in chi si voglia aiutare, si getta la premessa dell’inefficacia di quell’aiuto. Va però aggiunta una terza sottolineatura: la relazione di assistenza/aiuto, non si esaurisce in un rapporto “a due”.
Ogni persona, per sviluppare attese di realizzazione di sé ha bisogno di tessere ampi intrecci relazionali ed esprimersi su molte dimensioni dell’esistenza: affettiva, sociale, economica, culturale, giuridica, religiosa … via via quante sono le tensioni esistenziali che ci orientano. La povertà, intesa come ostacolo da superare per la realizzazione di sé, va contrastata su altrettanti terreni. Comprimere e semplificare l’idea di povertà ai soli piani economico e/o occupazionale, fuori da un contesto molteplice di relazioni, aspirazioni e significati scambievolmente costruiti in un “mondo” di emozioni, di legami, di paure e di speranze, equivale, più o meno inconsapevolmente, a deumanizzare la povertà e chi si trova ad incarnarla.
Politiche sociali semplificate e semplicistiche che riducessero l’intervento assistenziale a sole prestazioni impersonali standardizzate, condizionate al possesso di requisiti formali su parametri quantitativi (soglie isee, certificazioni di invalidità, numero ed età dei componenti del nucleo di conviventi ecc.) lasciando i recettori dei benefici assistenziali nella condizione di fruitori passivi e soli, nei fatti deprimerebbe invece che potenziare il benessere delle persone. La loro pienezza di umanità chiede di dispiegarsi su tante dimensioni al contempo, e con molti interlocutori capaci di porsi loro accanto, di riconoscere, di valorizzare, di implicare, di restituire responsabilità assieme alla dignità.
Le politiche sociali di contrasto alla povertà, per sortire esiti di “promozione” e riduzione del disagio, non possono fermarsi all’erogazione di benefici economici, più o meno sufficienti e più o meno continuativi, ma devono provocare intrecci di relazioni di scambievole riconoscimento che implichino per quanto possibile ciascuno, anche chi sperimenta deprivazione, nel sentirsi titolare di diritto quanto capace di esercitare il dovere di concorrere al bene altrui. Aiutare le persone assistite a prendersi cura di sé prendendosi cura anche di altri e della comunità circostante, rigenera benessere (welfare generativo) e sostanzia la partecipazione, pur nelle forme e nei limiti di cui ciascuno è capace.

prof. Luigi Gui, professore associato di Sociologia generale all’Università di Trieste

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)