La paura di dover ritornare in una terra che non è più la tua
25 Gennaio 2016
Sono giovanissimi, hanno quasi tutti tra i 20 e i 30 anni, i più “maturi” sono quasi un’eccezione. E hanno paura: paura di dover ritornare in una terra che non riconoscono più, in quella stessa patria che li ha costretti a fuggire da guerra e vessazioni di ogni tipo.Stiamo parlando dei richiedenti asilo che transitano nella nostra città, in attesa di ricevere dalla Commissione Territoriale lo status di rifugiato. Una settantina di essi è accolta presso la struttura emergenziale di Medici Senza Frontiere negli spazi del San Giuseppe, un luogo forse scarno ma che offre loro tre grandissime possibilità: acqua calda, un tetto dove poter passare la notte e, sopra ogni cosa, umanità.Ho avuto la possibilità di visitare il campo e di incontrare alcuni di questi profughi, scambiare con loro due chiacchere e scoprire le loro storie, unite tutte da un unico filo rosso: “the war”, la guerra.
Quando arrivo vengo accolta da Sator, uno dei quattro mediatori che, a rotazione, prestano servizio alla struttura. Oltre a italiano e inglese parlano dari, pashtu e urdu, le lingue di provenienza maggiormente presenti al campo, e nel loro passato c’è lo stesso viaggio che ha portato qui questi nuovi richiedenti asilo. Sono ragazzi che hanno voglia di darsi da fare, di collaborare in questo programma con Medici Senza Frontiere per far sì che, come già successo a loro, queste persone possano integrarsi e avere un’idea più chiara di quello che, nei prossimi mesi, gli succederà.Sator è afghano, ha solo 26 anni ma è in Italia da circa 7. Vive a Trieste e ogni giorno viene a Gorizia per coprire il suo turno di collaborazione al San Giuseppe. Studia alla scuola serale – nel suo paese è già diplomato ma si sta preparando per ottenere la licenza media italiana – e conduce in una web radio la “Rubrica di Sator”, dove vengono analizzati fatti di cronaca che hanno coinvolto stranieri, oppure fenomeni di razzismo. “Anche io ho attraversato il difficile viaggio attraverso Iran, Turchia, Grecia e prima dell’Italia ho vissuto anche in Francia e Danimarca. Quando sono partito dall’Afghanistan, volevo solo vivere: è questo il motivo per cui sono andato via. Alla fine, non ho fatto una vera scelta, è stata la situazione a scegliere per me. La cosa più difficile da affrontare – soprattutto per chi, come me, al momento della partenza è molto giovane – è il fatto di dover rimanere senza amici, senza famiglia e, una volta arrivati, dover veramente ripartire da zero; nel percorso poi si dorme sempre all’addiaccio, si cammina per giorni e giorni, si fa una fatica incredibile”. Dal momento che frequenta la scuola, gli chiedo quale sia la sua materia preferita: “Mi piacciono matematica e scienze; anche le lingue, voglio impararle bene. Non mi piace proprio la storia invece, ma questo anche quand’ero in Afghanistan: se guardi bene lo studio della storia si basa tutto sulle guerre…io non voglio studiare la guerra, io l’ho vista, è proprio da quella che sono scappato!”.
Sator mi accompagna quindi a visitare la struttura: 25 container che possono dare ognuno ospitalità a 4 persone. Accanto a questi, anche due container con docce calde e servizi igienici. I container sono caldi, piccoli ma accoglienti, e i ragazzi che vi soggiornano sono estremamente ordinati: le coperte sono sistemate accuratamente ai piedi di ogni letto, i vestiti appesi con cura, le scarpe lasciate sull’uscio. “Tengono alle loro cose, ad essere puliti e ordinati e a utilizzare al meglio le cose che gli vengono date” mi racconta l’operatore. All’arrivo ogni persona riceve un kit igienico – sanitario composto da un asciugamano, shampoo e bagnoschiuma, spazzolino e dentifricio e del sapone, con il quale può lavare i propri indumenti. “Se qualcuno si presenta in situazione di particolare urgenza, abbiamo anche a disposizione alcuni vestiti – aggiunge Sator – altrimenti vengono indirizzati alla Caritas”. Mentre parlo con lui gli ospiti iniziano a rientrare dal pranzo, per il quale si appoggiano alla mensa dei frati Cappuccini, mentre per la cena si recano alla parrocchia della Madonnina. Gli mostrano un foglio, che chiedo cosa sia: “Un foglio identificativo – mi spiega -. Serve per riconoscere, attraverso la lista che abbiamo a disposizione, chi alloggia qui. Lo devono mostrare ogni volta che rientrano dal pranzo o dalla cena. Solo chi ha il foglio può entrare”.
Sator mi lascia con Jamal, l’assistente logista che da diverso tempo opera con Medici Senza Frontiere. “Sono in Italia da nove anni e anche io, come tanti dei ragazzi che sono qui oggi, sono fuggito dall’Afghanistan. Quando sono arrivato in Europa ho dovuto affrontare tante difficoltà e tanti problemi, anche perché non ero a conoscenza di molte cose, motivo per cui oggi offro assistenza, affinché chi arriva sappia le pratiche burocratiche che devono essere affrontate, i tempi di attesa. Io ad esempio sono stato in detenzione per alcuni giorni perché rientravo tra i “casi Dublino”, ovvero le mie impronte digitali erano state prese anche in un altro Paese”. Gli chiediamo quali siano i suoi ricordi di 9 anni fa: “Ricordi duri, ho visto tanti amici in difficoltà prendere strade sbagliate – droga, crimine -: se, quando arrivi in Europa, non hai un’idea chiara sul percorso da seguire, può veramente succedere di tutto”.Jamal, prima di arrivare qui a Gorizia con Medici Senza Frontiere, ha operato anche in Sicilia, lavorando con i moderatori e gli psicologi per prestare soccorso ai migranti vittime di naufragio. “Tanti ragazzi africani e subsahariani avevano subito violenze e prigionia nei loro Paesi d’origine; le ragazze spesso erano vittime di abusi e tutti venivano sfruttati. Qui a Gorizia mi occupo invece dell’aspetto logistico, affinché il progetto lavori in sicurezza. Ovviamente parlo con i ragazzi, li aiuto. Le richieste che fanno sono quelle di base: vestiti puliti, dove poter avere del cibo, soprattutto hanno tutti bisogno di chiarezza sul loro status, sono preoccupati sul loro futuro e sulle tempistiche e la cosa che temono più di tutto è il rimpatrio: non vogliono tornare in quella terra di guerra. Sottolineo che spesso sono persone traumatizzate e i problemi fisici che a volte accusano sono in realtà riflessi psicologici; hanno bisogno di sostegno”.
Mi soffermo a parlare con Abdul, un giovane afghano che si esprime in un perfetto inglese. Scopro che nel suo Paese era insegnante di lingue. Il suo viaggio è durato 2 mesi, dalla Turchia ha attraversato tutti i Balcani, passando per Bulgaria, Croazia, Austria. “In Serbia le cose sono andate bene, ma in Iran e Bulgaria è stato tremendo -racconta -. Abbiamo camminato lungo i confini, 30 ore di fila, è stata la parte più pericolosa di tutto il viaggio. Ho passato anche cinque giorni in ospedale a Sofia perché i miei piedi erano molto feriti. Del gruppo con cui viaggiavo ero l’unico a parlare inglese e abbiamo avuto tanti problemi di comunicazione con la Polizia; inoltre i poliziotti ci portavano via i soldi, il cibo, ci hanno messi in prigione e potevamo uscirne solo pagando. Non c’erano diritti umani. In Serbia invece abbiamo incontrato Medici Senza Frontiere e le cose sono migliorate”. Gli chiedo perché sia scappato dalla sua terra. “A causa della guerra. La situazione era insostenibile. Lì ci sono ancora mio papà e mia mamma ma non li sento da tanto perché la zona da cui provengo non è coperta da mezzi di comunicazione ed è una delle più pericolose del Paese”. “Cosa vorresti fare ora?” “Sto aspettando i documenti e spero di poter essere trasferito perché tutti i miei amici sono stati inseriti nel precedente trasferimento. Una volta stabilizzata la situazione mi piacerebbe poter studiare…mi manca tanto poterlo fare”.
Nella mia visita incontro anche…chiamiamolo Jay. Vuole rimanere anonimo perché nel suo Paese d’origine, il Pakistan, è un personaggio “scomodo”. Anche lui è giornalista e non è ben visto per il fatto di voler raccontare quello che il nostro mestiere impone: la verità dei fatti. È il più anziano al campo di Medici Senza Frontiere, ha 51 anni, e racconta di essere perseguitato dal Governo del suo Paese. “In Pakistan non puoi fare questo lavoro, non si può parlare liberamente, altrimenti soffri. Solo che poi il Governo fa soffrire anche la tua famiglia… Anche la Polizia non sopporta noi giornalisti, perché sa che sappiamo cosa succede nei Commissariati, nelle prigioni…” Lungo il suo percorso per arrivare a Gorizia, dove si trova da circa un mese, ha attraversato i Balcani ed stato fermato per 5 mesi in Ungheria. Ci racconta di un viaggio lunghissimo, costretto a superare numerose montagne e a camminare anche per 4 ore di fila in un fiume con l’acqua all’altezza del petto. “Sono rimasto per quasi tre giorni senza toccare cibo, continuando a camminare e ricevendo tanti “no” da Polizia e Istituzioni, sentendomi rifiutato come persona umana”. “Cosa vorresti fare una volta sistemata la tua situazione burocratica?” “Voglio visitare tutta l’Italia, scoprirla e conoscere tanta gente italiana, magari raccontarla scrivendo. Voglio vedere diverse situazioni e conoscere anche le storie di altri rifugiati”.
Incontro infine Mansur, dall’Afghanistan: lavorava per l’esercito americano e i Talebani avevano iniziato a minacciarlo. Il suo viaggio verso l’Europa è durato un mese e mezzo ed è simile a quello di Jay. “Le difficoltà maggiori le ho trovate in Turchia – racconta – dove non riuscivo a trovare un modo per effettuare un guado per arrivare in Grecia. Abbiamo camminato per più di quattro ore nell’acqua, sentendo che, se non l’avessimo fatto, tutto sarebbe stato perduto. Attraversare quell’acqua aveva per noi quasi il senso di una rinascita”. Il suo arrivo in Grecia è stato sull’isola di Samos, con un gruppo di 15 persone. Una volta raggiunta la terraferma, il suo viaggio è proseguito verso la Macedonia e da lì lungo i Balcani, camminando anche per 24 ore di fila, attraversando montagne: “Non c’era mai pianura da poter attraversare in linea retta; c’era una montagna, poi un’altra, poi un’altra ancora…nel gruppo con il quale viaggiavo c’erano anche famiglie con bambini e anche alcune persone avanti con gli anni. Per loro era dura, ma era una necessità: era l’unica opportunità che si aveva, altrimenti si sarebbe ritornati a ciò da cui stavamo scappando”. Anche Mansur racconta di permanenze in prigione dalle quali hanno potuto uscire solo pagando: “Se avevi i soldi, potevi uscire, altrimenti venivi rispedito nel tuo Paese”. “Cosa vuoi fare quando avrai i tuoi documenti?” “Mi piacerebbe rimanere qui a Gorizia, fare qualcosa per noi rifugiati e per la mia famiglia e amici. Non so cosa succederà ma credo che restare qui sia la cosa migliore; Dio mi ha fatto arrivare qui, è il mio destino e io credo nel destino”.Mansur mi accompagna all’uscita, mi saluta stringendomi la mano e dandomi un mandarancio. “Ma è tuo, l’hai tenuto da parte per te, io qui non ho nulla…” “E’ per te, mi ha fatto piacere conoscerti e raccontarti la mia storia”.
Esco dal San Giuseppe con tante storie da raccontare e con un mandarancio che, in realtà, racchiude in sé umanità e voglia di vivere.
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