Da 250 anni Principi del Sacro Romano Impero
11 Luglio 2016
“Sacri Romani Imperii Principes fecimus, creavimus et nominavimus, atque ad sublimen Titulum et excellam Dignitatem Sacri Romani Imperii Principatus ereximus et exaltavimus”
Il documento Imperiale, Editto, si apre solennemente con l’Intitulatio dell’Imperatore Giuseppe II il quale si nomina nel plurale maiestatico “Nos” e di seguito, dopo la formula di umiltà degli Imperatori del Sacro Romani Impero “Divina favente Clementia”, ricorda tutti i titoli legati alla dinastia ereditaria d’Asburgo, tra i quali quello di Principe Conte di Gorizia e Gradisca.
Il secondo capoverso è dedicato alle motivazioni storiche, una sorta di “arenga”, che hanno portato alla decisione di innalzare con il titolo principesco il primo Arcivescovo Metropolita di Gorizia e i suoi legittimi successori: “Horum vestigis et Nos inharentes benigno perpendimus animos quonam antiquissimis jam temporibus Patriarcharum Aquilejensium fama fuerit, quorum merita et amplitudo iisdem olim locum inter Sacri Romani Imperii Princeps compararunt, quibusque de causis post abolitum anno millesimo septingentesimo quinquagesimo primo Aquilejensem Patriarchatum Archiepiscopatus Goritiensis dein creatus, huisque Reverendus devotus Nobis dilectus Carolus Michael e Comitibus ab Atimis Consiliarius Noster actualis intimus, virtute doctrina, ac pietate adhuic magis, quam antiqua et illustri natalium praerogativa perquam commendamus”. L’imperatore nella solennità del documento fa chiara memoria dell’antichissimo Patriarcato di Aquileia, soppresso nel 1751, e precisa che il conte Carlo Michele d’Attems, primo Arcivescovo di Gorizia, proviene da una importante famiglia del patriziato cittadino ed era già stato insignito del titolo di “Consigliere Intimo ed Attuale” dell’Imperatore.
Giuseppe II ricorda le sue prerogative Cesaree e Rege e la sua potestà imperiale che gli permette di innalzare al prestigioso titolo di principi del Sacro Romani Impero sia Carlo Michele sia i suoi successori metropoliti e usa i classici verbi dispositivi “fecimus”, “creavimus”, “nominamus”, “ereximus” “exaltavimus” che danno immediata validità giuridica a tutto l’atto: “Hinc ex certa Nostra Scientia, deque ea, qua per DEI gratiam fungimur, Cesarea Authoritatis, Potestatisque plenitudine pradictum Reverendum Carolum Michaelem Goritiensem, ejusque legitimus in dicta Archiepiscopali Sede Successores, veros Sacri Romani Imperii Principes fecimus, creavimus et nominavimus, atque ad sublimen Titulum et excellam Dignitatem Sacri Romani Imperii Principatus ereximus et exaltavimus […]”.
Viene poi concessa agli arcivescovi di unire all’arma di famiglia [lo stemma o blasone] i segni distintivi episcopali e quelli di principi del Sacro Romano Impero, simboli che dovranno permanere “in perpetuo” e dovranno essere posizionati su tutti gli atti, documenti, monumenti, tombe, cenotafi, scudi, anelli, sigilli, edifici, tappeti e su qualsiasi cosa di carattere ecclesiastico, profano o misto: “[…[ hanc specialem gratiam facimus et concedimus, ut profato Reverendo Carolo Michaeli Archiepiscopo Goritiensi Successoribus Sacri Romani Imperii Principibus liceat armis Archiepiscopatus propria quoque Familia Insigna unire, et unita Pallio, Pileoque sive Mitra Nostris et Sacri Romani Imperii Principibus propria redimere, sique illa ex hoc perpetuo posthac tempore, in omnibus et singulis decentibus actibus atque expeditionibus, in Scutis, Cenotaphis, Sepulchris, Monumentis, Annulis, Sigillis, Aedificiis, Lacunaribus, Tapetibus, et Supelletibbus quibuscunque tam in rebus Ecclesiasticiis, quam profanis et mixtis […]”.
Al centro del documento l’Imperatore precisa che in “perpetuis futuris temporibus” il titolo di Principi avrà valore giuridico insieme a tutti gli onori, dignità, prerogative, esenzioni, immunità, libertà, diritti, privilegi, Grazie, indulti e in qualsiasi materia di diritto, in tutti gli stati, cause, condizioni legate al prestigioso titolo sia spirituali, sia temporali, sia ecclesiastiche o profane. “Decernentes, et hoc Nostro Imperiali Edicto firmiter statuentes, ut posthac perpetuis futuris temporibus profatus Archiepiscopus, eiusque in Archiepiscopatu Goritiensi successores legitimi virtute huius Nostra Erectionis, Exaltationis, Sublimationis, et Aggregationis tam in scriptis, quam viva voce, aut alias quotiescunque, seu quodmodo, libet eorum mentio facienda erit, Sacri Romani Imperii Principes nominentur, nuncupentur et reputentur, omnibusque et singulis Honoribus, Dignitatibus, Praerogativis, Exemptionibus, Praeminentiis, Libertatibus, Juribus, Privilegiis, Insignibus, Gratiis, Indultis, Regalibus, et aliis quibuscumque, in judicio et extra, in omnibus rebus, statibus, causis, sessionibus, tam spiritualibus, quam temporalibus, Ecclesiasticiis et profanis, et alias ubique et in locis omnibus libere gaudere […]”.
Come tutti i principi del Sacro Romano Impero anche Carlo Michele d’Attems e i suoi legittimi successori godranno di una serie di privilegi e di immunità “[…] Carolum Michaelem Archiepiscopum, ac ejusdem in Archiepiscopatu Goritiensi successores in infinitum, ex hoc tempore in futurum ac perpetuo pro Sacri Romani Imperii Principibus reputent et honorent, dictisque privilegiis, juribus, insignibus, regalibus praeminentiis, excemptionibus, praerogativis, gratiis et indultis libere, pacifice et sine omni impedimento, ac molestatione gaudere […]”. Il documento imperiale precisa anche che proprio per tutte queste prerogative legate a una dignità così grande, in caso di “indignationem gravissimam” sarebbe stata inflitta una multa di “Quinquaginta Marcarum Auri Puri”.
L’Editto si chiude con la “corroboratio” nella quale si annunciano la firma autografa dell’Imperatore, l’apposizione del sigillo e la “datatio” che si presenta sia topica sia cronica: “[…] manu Nostra subscriptarum, et sigilli Nostri Cesarei appensione munitarum, qua dabantur Vienna die secunda Mensis Maji Anno Domici Millesimo Septingentesimo Sexagesimo Sexto, Regni Nostri Tertio”.Carlo Michele d’Attems – Cultura e pastorale nella Chiesa Goriziana del Settecento
Dopo 14 anni dall’erezione dell’Arcidiocesi Metropolita di Gorizia giunse il titolo di Principe del Sacro Romano Impero al primo arcivescovo e ai suoi successori. Scrive Luigi Tavano a pagina 51 della sua opera monografica dedicata all’Arcidiocesi di Gorizia “La Diocesi di Gorizia 1750 – 1947”, “La sua visione cattolica appare attenta ai problemi spirituali e politici nella Chiesa del tempo: nutre incrollabile fiducia nella sintonia necessaria fra Roma e Vienna, diffida da novità non ben fondate, promuove un particolare progetto per l’unione della Chiesa ortodossa russa con la Chiesa cattolica, rivendica l’autonomia della Chiesa anche nei confronti della stimata “madre” sovrana, Maria Teresa, alla quale scrive: è impossibile un mutamento così sorprendente che viene ad offuscare le luminose gesta di Vostra Maestà […]” Si riferiva agli interventi antigiurisdizionali imperiali e al lungo e sofferto itinerario del sinodo diocesano con la mancata pubblicazione degli atti. Tutto ciò però non gli precluse il titolo principesco. Il 2 maggio 1766 l’imperatore Giuseppe II appose la sua firma e il documento divenne operativo proprio il 13 luglio successivo, giorno della dedicazione della Chiesa Aquileiese, sede dell’antico patriarcato.La nuova Arcidiocesi nata il 18 aprile 1752 si estendeva da Lienz in Carinzia a Maribor e Ptuj nell’attuale Slovenia, ai confini con l’Ungheria e la Croazia, dal fiume Drava a nord fino all’Adriatico a sud. L’Arcidiocesi aveva come suffraganee le diocesi di Trieste, Pedena, Trento e Como in Lombardia.Non era un compito semplice quello del nuovo presule designato organizzare la diocesi. Si trattava di un territorio vastissimo con una popolazione di almeno seicentomila abitanti appartenenti a più ceppi etnico-linguistici: tedesco, friulano e soprattutto sloveno, con sensibilità diverse, storie molto dissimili e anche differenti esperienze culturali, sociali e religiose. Nel 1754 Carlo Michele descrive nella relazione per la “Visita ad limina apostolorum” come buono e tenace nella fede il popolo forogiuliense, docile e amante della pace ma in alcuni luoghi montani dedito a pratiche superstiziose. Nella Carniola la popolazione era disciplinata e retta nella fede, con una inclinazione ad usanze vane e facili costumi, nonché c’era una certa pigrizia e negligenza nelle opere. La popolazione della Drava era sospettata di eterodossia e appariva segnata nell’errore, violenta nel suo modo di fare e non era provvista di clero preparato. Nella valle del Gillio si professava la vera fede anche se non mancava gente superstiziosa e spudorata, e vi imperava l’ignoranza e la brutalità. Nella Stiria invece la popolazione era pacata, docile, costante nella fede; il Tirolo era lodato per la sua fedeltà alla fede e ai retti costumi.La diocesi contava 248 chiese parrocchiali, 152 vicariati curati, 2413 chiese senza cura d’anime, 43 oratori pubblici, 19 oratori privati, molti ordini religiosi maschili e femminili. Il clero era mal distribuito: se a Gorizia si aveva un sacerdote ogni 26 abitanti in Carinzia si giungeva a uno ogni mille. I sacerdoti nel loro insieme si presentavano ignoranti, non preparati, oziosi e poco impegnati nella cura delle anime.Gli interventi pastorali di Attems perseguiranno le finalità di chiarire e maturare i contenuti della fede e la pratica della vita cristiana, in primo luogo attraverso la catechesi parrocchiale che fino allora si teneva regolarmente solo nella parte friulana della diocesi; anche per questa ragione erige ovunque la Confraternita della Dottrina Cristiana, dimostrando grande apertura alla collaborazione pastorale dei laici nella catechesi. Non era meno attento agli aspetti sociali della vita religiosa: combattendo l’ozio e la molteplicità delle feste, promuovendo specifici interventi caritativi ed assistenziali: egli stesso praticava un’intensa opera di carità tanto da essere indicato tra il popolo come il “padre dei poveri”. Per il rinnovo religioso e la formazione di un clero zelante fonda nel 1757 il seminario diocesano, detto “Domus Presbiteralis” nel quale si privilegiava la lingua slovena e tedesca, anche attraverso sussidi particolari ai chierici.Erige un centinaio di stazioni curate nelle località troppo distanti dalla matrice parrocchiale, valorizza la lingua locale sia nella predicazione sia nella catechesi; egli stesso utilizzava con estrema disinvoltura l’italiano, lo sloveno, il tedesco e il friulano.Carlo Michele porta con sé la formazione ricevuta a Graz, Modena e Roma, nonché l’esperienza di Canonico di Basilea, nella quale prevale una visione di chiesa unitaria, prettamente tridentina e controriformistica. La chiesa non è un “coetus fidelium” ma una “societas”, un “corpus” unico diffuso nel mondo, ma unito e guidato dal papa, il vicario visibile di Cristo. Alla centralità del papa nella chiesa universale, corrispondeva la centralità del vescovo nella chiesa locale; il vescovo era pastore e guida della comunità diocesana, responsabile della vita spirituale del gregge a lui affidato così come dell’attività giuridico-istituzionale della sua diocesi.Nel complesso la sua opera assume il volto deciso di una riforma cattolica che va concepita “come una grande impresa collettiva alla quale chiamò a collaborare clero e autorità civile: quella di fondare una diocesi organicamente strutturata e religiosamente rinnovata in quell’intreccio di province austriache che faceva da cerniera fra vecchi assetti istituzionali e nuove spinte mediterranee della politica asburgica” [L. Tavano op. cit. pag. 53]. Anche per queste ragioni il titolo Principesco assume un valore essenziale, proprio a indicare l’importanza che Vienna riconosceva al metropolita di Gorizia e ai suoi successori, in un territorio enorme e complesso che rivestiva una rilevanza anche strategica per tutto l’Impero.
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