Come sta cambiando l’atteggiamento nei confronti della morte?

Si avvicina il momento delle solennità di Ognissanti e della Celebrazione dei Defunti, attimo in cui ricordare i propri cari scomparsi e in cui prendere un istante di raccoglimento per celebrare la loro memoria e storia.Sembra però che l’atteggiamento nei confronti della morte stia cambiando e spesso le famiglie scelgono di non realizzare una cerimonia funebre, optando per una breve benedizione o solamente un saluto presso la camera ardente, in forma laica. Abbiamo ascoltato diverse voci all’interno del territorio diocesano e insieme a loro abbiamo cercato di comprendere questo fenomeno.Don Sinuhe Marotta – che ha sottolineato come i dati siano presenti ma non allarmanti – ha posto l’accento sul fattore comunitario e sociale, che si rischia venga messo in secondo piano, ma anche di come a volte, nel momento di dolore, i famigliari siano confusi e necessitino quindi di una guida, da trovare proprio nel sacerdote.

Don Sinuhe, com’è la situazione attuale legata alla celebrazione delle esequie?

Non stiamo dando dati allarmanti, ma il fatto che ci siano persone che dicano di non voler nessuna funzione per un defunto – magari un padre o una madre -, soltanto una benedizione e via, è significativo per me, anche se fosse uno solo caso.I famigliari affermano che il parente non era credente ma il problema per la Chiesa non è se uno era credente o meno, ma se uno era battezzato o no. C’è poi a mio avviso un problema etico, ossia “di chi è la persona?” – per così dire -; è solo dei familiari, magari arrivati all’ultimo minuto perché era un parente alla lontana o poco conosciuto? O è anche della comunità cristiana e del tessuto sociale? Ognuno di noi nella sua vita intesse delle relazioni sociali, c’è una rete nella quale è inserito. A me non interessano tanto i numeri statistici quanto la situazione, perché è indice di come viene affrontata la vita, la morte, il percorso.La morte è circondata da gesti simbolici e questo è distintivo dell’uomo: il cingere di cura, attenzione e venerazione i defunti fa parte della struttura umana. Dimenticare questa cosa vuol dire dimenticarne una parte.

Come definirebbe quindi il rapporto con la morte oggi?

È bello sapere che una persona è inserita all’interno di un tessuto sociale, ma molte persone non vogliono informare che un parente è morto: non escono locandine, non viene pubblicato un annuncio funebre sul giornale; invece si dovrebbe ricordare che una persona aveva dei vicini di casa, degli amici, dei conoscenti. Per noi una persona appartiene anche alla comunità, non appartiene solo a sé stessa. Paradossalmente vediamo che questo è tanto più vero per coloro che muoiono da soli: è capitato di avere la presenza anche soltanto di uno o due familiari ma la comunità si è sempre stretta intorno alla persona, celebrandone la morte e affidandola al buon Dio. Tutto questo è significativo.Oggi osservo una tendenza alla privatizzazione della morte, sull’onda anche di tanti altri fattori, per la quale la morte viene di fatto medicalizzata, a volte per sopraggiunte problematiche non ci si può avvicinare al parente morente… La cultura dell’accompagnamento verso la morte è stata un po’ “sterilizzata”, delegando al mondo medico e ai protocolli d’igiene quello che è un fatto umano.

Cosa accade quindi dopo il decesso in una struttura sanitaria?

Dopo l’ospedale, dove il malato viene accompagnato e c’è la benedizione del corpo al momento della morte, spetta alle parrocchie accompagnare famiglie e defunto al funerale; la collaborazione con le onoranze funebri e ottima e spesso ci aiutano a far comprendere alle famiglie che non vogliono svolgere il rito funebre l’importanza di questo segno: spesso non sanno di cosa si tratta, ne hanno magari una conoscenza parziale, in più nel momento difficile della perdita di una persona cara, spesso si è confusi, insicuri, presi dall’onda delle emozioni e le persone a volte non sanno come muoversi. In questo contesto i sacerdoti possono essere una risorsa – con la loro esperienza e disponibilità – per far comprendere come anche il momento della morte vada circondato e fatto diventare significativo per tutti.Bisognerebbe recuperare una cultura del fine vita, dell’accompagnamento verso questo momento, che non sempre avviene per cause improvvise, è anche un passaggio naturale nella vita di un uomo o una donna. Si tratta di riappropriarsi di alcuni “saperi sociali”.

Quanto incide il costo di un funerale sulla scelta di realizzarlo o meno?

Onestamente non credo molto a questo fatto dei costi – discorso simile si sente quando ai ragazzi viene chiesto perché non si sposino in chiesa -. A mio avviso sono cose molto relative, resto convinto che non servano sfarzi né grosso dispendio di denaro; in più credo che per casi di povertà tali da non potersi permettere nemmeno una sepoltura esistano degli aiuti.

“Abbiamo seppellito la storia”

L’opinione di Mons. Ruggero Dipiazza

Abbiamo chiesto un commento anche a mons. Ruggero Dipiazza, secondo il quale il problema è legato anche al vivere delle famiglie di oggi in maniera distaccata la morte, non raccontando più il vissuto della propria famiglia, quasi come se con il decesso di un proprio caro, questo cessasse di vivere anche nella memoria.

“Il problema credo sia legato in parte anche al fatto che, in qualche modo, abbiamo “seppellito” la storia, sia la storia “grande” che quella “piccola”, quella delle famiglie.Le persone tendono a parlare sempre con maggiore ritrosia, e forse anche con pudore – penso ora a nonni e genitori -, non riuscendo a comunicare, a raccontare le storie che erano importanti per loro e che potrebbero essere importanti per i nipoti o i figli, facendo crescere in loro la consapevolezza che le cose non vengono da sé, richiedono fatica, coerenza, fedeltà, continuità, tutte cose che sono un po’ assenti da quello che è il vocabolario della vita di oggi.La privatizzazione – o quasi l’obnubilamento – della celebrazione delle esequie (e quindi della stessa morte) credo che per certi versi rappresenti una delle facce di questo problema, come se si dicesse “qui la storia non ci interessa, il futuro non c’è, chiudiamo la pratica e non se ne parli più”. Ciò è dimostrato anche dal fatto che oggi pochissimi celebrano gli anniversari; ci si domanda quindi quali spazi siano concessi alla memoria.Questo può indubbiamente essere favorito anche da alcuni dati che io rileverei come autocritica da parte della comunità cristiana, ossia il fatto che molte volte non c’è una presenza costante dei sacerdoti; ciò fa sì che un operatore dell’ambito sanitario in qualche modo rappresenti la “via di fuga” per concludere l’iter che accompagna la morte di un proprio parente. La mia paura è anche che lo stesso operatore pastorale tenda a proporsi come la “soluzione” immediatamente più comoda e, per certi versi, più spersonalizzante. Vanno invece messi in rilievo la storia di una persona, che non può essere dimenticata, i rapporti con la comunità stessa; noi insistiamo molto su questo fatto.Inoltre la comunità non addossa oneri finanziari ai celebranti: più volte è stata proposta la collaborazione, per essere d’aiuto alle persone in difficoltà economica tale da non poter organizzare autonomamente il funerale di un familiare, pensando che in quei momenti è importante il proporsi solidali. In alcuni casi addirittura la comunità si è mossa per accompagnare le persone, anche povere, con la dignità importante che merita un figlio di Dio e abitazione dello Spirito Santo.In tutte le nostre comunità si celebrano con molta dignità e partecipazione le cerimonie funebri: i familiari dovrebbero saper valutare tutto questo, con una riconoscenza del cuore verso il defunto, il proseguimento della storia dei suoi sacramenti e della sua Fede (indipendentemente dalle proprie idee personali) e il suo vivere in comunità, per la quale è importante celebrarlo.Il problema si riscontra anche nei cimiteri, luoghi del riposo ma anche della meditazione e della riflessione, con una crescente preferenza a conservare le ceneri del defunto in casa o in altri luoghiSi tratta di riflettere sulla visione dell’esistenza, che non è solo quella vissuta in vita, ma è completata anche da una continuità con il ricordo, dal proseguimento verso varie forme della presenza del defunto”.

Una scelta che appare come un enigma

L’esperienza di Fra Valentino Woldemariam all’Ospedale di Gorizia

Da circa tre anni e mezzo opera all’interno dell’Ospedale Civile di Gorizia Fra Valentino Woldemariam il quale accompagna i malati nel momento della morte ed offre il primo sostegno ai familiari. Nel corso della sua esperienza in città molte volte si è “scontrato” con la scelta delle famiglie di non svolgere alcuna cerimonia religiosa, scelta che lui definisce come “un enigma”, ma che non forza, comprendendo anche il dolore e lo sconvolgimento che una perdita porta con sé.

Fra Valentino, che situazione riscontra in questa struttura ospedaliera?

Qui in ospedale sono crescenti i casi di familiari che decidono di non svolgere una cerimonia funebre per il loro parente defunto; il tutto si riduce alla camera ardente, con la presenza di amici, parenti e conoscenti, poi la salma viene direttamente trasferita al cimitero in forma laica e privata.L’aumento del fenomeno c’è, anche oggi c’è stata una famiglia che ha chiesto una “veloce” benedizione, passando poi direttamente alla fase della sepoltura, senza passaggi in chiesa.

Come si comporta in questi casi?

Io mi occupo di seguire i malati e impartire loro i sacramenti; i familiari però spesso vogliono vivere questo momento senza la presenza del sacerdote – a volte anche dicendo che era esplicito desiderio del defunto (anche se non sempre è realtà…) -; io non posso fare nient’altro che rispettare il loro volere: quello della morte è un momento difficile, non si può insistere o obiettare. È un momento doloroso, io devo aiutarli ed essergli vicino, come ci ha insegnato la Madonna sulla croce.In ogni caso il fatto che una persona abbia ricevuto l’eucarestia e i sacramenti e poi la famiglia mi dica che lui non avrebbe voluto una cerimonia con il sacerdote, resta per me un enigma. Non posso negare poi che anche il proliferare di tutti questi funerali laici a livello mediatico, in qualche modo condizionino poi la scelta delle persone.

Sono solo i costi a frenarli?

C’è secondo me dell’altro. Ho notato che la gente non solo ha “paura” di spendere troppo per un funerale, ma manca la Fede: sono staccati dalla vita della comunità dei fedeli. Rispetto la scelta di una persona che non vuole i sacramenti, ma credo che in qualche modo influisca anche il fatto che forse sentono un po’ lontano il rapporto con il sacerdote; rinnovo l’invito ai parroci ad andare spesso tra le case, a conoscere le famiglie, seguirle. Io qui non conosco i familiari, ci sono per l’accompagnamento del malato, la vicinanza ai parenti nell’immediato, ma dopo la morte ci vuole il sostegno e l’accompagnamento del parroco della propria parrocchia.

Crede che assisteremo a una crescita di questo fenomeno?

Io ho paura che, se non si prende in mano la situazione cominciando a lavorare come Pastorale su questo problema, il tutto crescerà ancora, non credo si sia arrivati a una situazione di stasi.

Il rischio di approdare ad un esito nichilistico

Funerali civili: un’analisi di come si sia sempre più diffuso nella società attuale lo sforzo di “cancellare la morte”, un fatto da rimuovere e occultare al più presto

Mentre da tempo disponiamo di indicatori della cosiddetta secolarizzazione, quali le percentuali di matrimoni civili o di non battezzati rispetto ai nati, non sono reperibili dati statistici sulle diverse forme, religiose o civili, dei funerali. E, infatti, fino a pochi anni fa, tuttora nei piccoli paesi, era ed è diffusa la convinzione che, tranne in rari casi, ampiamente pubblicizzati dai media, il funerale cattolico sia rimasto l’unico rito non intaccato dai processi di scristianizzazione della società, scelto quindi anche per coloro che non partecipano alla Messa domenicale e alla vita della Chiesa. Ma la situazione sta rapidamente cambiando per una serie di motivi legati a grandi trasformazioni sociali di cui solo oggi vediamo compiutamente alcuni effetti, anche se le radici affondano in un passato più o meno lontano. Una prima ragione, intuitiva e comprensibile, dell’aumento di riti funebri alternativi a quello cattolico sta nella composizione sempre più multiculturale e multi-religiosa  della nostra società, che ha indotto il legislatore, già con la norma generale in materia del 1990, a prevedere che nei cimiteri vi siano aree destinate agli acattolici. Gli interrogativi principali vertono però su altri aspetti: da un lato, la crescita di richieste di funerali civili, privi di ogni connotazione religiosa (“Funerali senza Dio” nel titolo di un libro sull’argomento), dall’altro, le radicali trasformazioni sul modo di affrontare, accompagnare, simbolizzare l’evento della morte, spesso anche nell’ambito di riti cattolici. Che i funerali civili siano in crescita, nonostante l’impossibilità di quantificare il fenomeno tramite dati statistici, è dimostrato da vari indicatori: il lungo elenco di personaggi noti recensiti sul sito dell’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) che hanno chiesto esequie laiche, il gran numero di siti internet che propongono funerali laici, la creazione di “sale del commiato” previste dalle normative di molte Regioni, fra cui la nostra, per “esporre il feretro per la celebrazione di riti di commemorazione e di dignitoso commiato”. Come per molti altri aspetti, l’Italia sta seguendo, a distanza di tempo, modelli sociali molto diffusi altrove. Già in un testo del 1989 Emmanuel Anati scriveva: “La professionalizzazione del rito, già evidente in Francia, ha assunto proporzioni sorprendenti negli Stati Uniti… la preparazione della salma non è più affidata alle anime pie che aiutano il defunto a presentarsi pulito, cioè puro, davanti a Dio, ma ai tecnici della tanatoprassi, più preoccupati dell’igiene che della purificazione… È come se assistessimo ad una triplice mutazione: desocializzazione, neutralizzazione dell’affettività, desimbolizzazione”, cui si può aggiungere la crescente commercializzazione desumibile da siti che propongono “il posto più bello per dirsi addio”. Le modificazioni relative ai riti funerari esprimono due fenomeni di più ampia portata: la desacralizzazione della vita (il disincanto del mondo) e la sua privatizzazione. Philippe Ariès, autore di una Storia della morte in Occidente, parla di un tabù della morte nella nostra cultura recente, una “morte proibita” da occultare e rimuovere: “Una maniera del tutto nuova di morire è comparsa nel corso del secolo XX in alcune fra le regioni più industrializzate, più urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale – e senza dubbi siamo ancora agli inizi. Due tratti saltano agli occhi del meno attento degli osservatori: la sua novità, certo, il suo contrasto con ciò che era prima, di cui costituisce l’immagine rovesciata, il negativo, la società ha espulso la morte, eccetto quella degli uomini di Stato. Niente più nella città avverte che qualcosa è accaduto: il vecchio carro funebre nero e argento è diventato una banale automobile grigia che si perde nel flusso della circolazione. La società non segna nessuna pausa: la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità. In città tutto si svolge come se nessuno più morisse.”Non a caso la diffusione di funerali civili è avvenuta in Francia prima che da noi, eredità della rivoluzione francese, che introdusse in una società allora legata a modelli cristiani, le prime normative sulle esequie e le sepolture laiche. A quei laici e anticlericali principi si ispirò uno dei più noti eroi nazionali del Risorgimento, Garibaldi, che lasciò scritto per testamento, con parole di fuoco, di non volere in nessun momento la presenza di un prete. L’obiettivo di creare forme di liturgia e di spiritualità laiche per i funerali, senza alcun riferimento a una dimensione trascendente ultraterrena, inserito nel più ampio tentativo di affrancare l’uomo da ogni dipendenza e limite, rendendolo arbitro individuale ed esclusivo del proprio destino di vita e di morte, rischia di approdare a un esito nichilistico: la mancanza di fondamento è l’abisso del nulla. Come mette ben in evidenza Umberto Curi, parlando del mito di Prometeo, fondativo della società occidentale, lo sforzo di cancellare la morte è antiumano, più ancora che blasfemo, ed è maledetta, oltre che impotente, la pretesa titanica di “farcela da soli” tramite “la téchne costruita da un uomo che deliberatamente rinuncia a ogni dono divino, a ogni mediazione salvifica, proponendosi come salvatore di se stesso.”

Gabriella Burba

Commiati ai defunti: una questione pastorale

  l culto dei defunti, l’amore per i trapassati e la preghiera per i morti – da sempre al centro di tutte le culture e comunque un momento di forte sensibilità anche pastorale per la Chiesa – apre una vera e propria “questione” nella prassi teologica e pastorale della Chiesa. Non tanto per i numeri (ad esempio a Ronchi fra le diverse comunità si celebrano annualmente quasi centocinquanta riti di commiato nelle chiese, con alcuni funerali detti civili che quasi sempre comprendono comunque una benedizione e una preghiera). Invece, merita una rinnovata attenzione all’approccio pastorale della morte nella vita delle persone e delle famiglie, alla celebrazione del commiato nelle comunità e, comunque, al ripensamento della “questione pastorale” intesa nella sua dimensione complessiva. Intanto perché la morte risulta nascosta e, prima ancora, resta nascosta la fase della malattia e soprattutto del commiato in ospedale o in famiglia; una copertura che solo in pochi casi coinvolge la famiglia, i figli – ragazzi e giovani – e le persone, la comunità. Un silenzio e una copertura che certamente non facilita il dialogo successivo. Anonimato e scarsa intimità o almeno partecipazione non favoriscono dialogo e confronto ma soprattutto rischiano di rendere povero il rito delle esequie.In secondo luogo, la cultura nella quale viviamo non è la cultura della vita ma del successo e del consenso, dell’apparire e non dell’essere, della superficialità e non della sostanza. Comunque, esistono, o occorre porre, spiragli dai quali far uscire la spiritualità dalla emotività e dalla superficialità; in altre parole provocare le domande sul senso e sul dove, oltre che sul perché e come… nel tentativo di rimettere in attività dentro alle persone le “domande” sul mistero di vita e di morte.Infine, fa tema la questione del linguaggio teologico e liturgico. Un linguaggio che abbisogna molto di più che di “un aggiornamento” formale. Parlare della morte, della vita eterna, dei “novissimi” come si dice, significa saper cogliere la provocazione della morte (e della malattia) come un dato non generico e generale ma specifico; poi rileggere con pazienza la Parola di Dio sull’evento, ricalibrare i segni e simboli e rinnovare formulari che potevano parlare ad un ’altra epoca e che, quindi, abbisognano di una coraggiosa rivisitazione.Lo spazio, ancora una volta provocato dalle imminenti celebrazioni della Commemorazione del defunti, ritorna ogni giorno perché ogni giorno sentiamo suonare o facciamo suonare le campane per annunciare la morte o annunciare la vita eterna per coloro che entrano nel mistero della vita per sempre. In altre parole, la quotidianità poi ci provoca e ci induce a guardare con la forza e la luce della resurrezione anche la memoria dei nostri cari.

R.B.

Seppellire i morti Opera di Misericordia

L’ultima pagina del Vangelo di Matteo (25, 31-46), prima della Passione di Gesù, con le “sue” sei opere di misericordia corporali: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, ci offre anche una prospettiva escatologica. “Lo avete” o “Non lo avete fatto a me”, ciò ha delle conseguenze per l’eternità.Le opere di misericordia sono dunque una traccia per la vita sulla terra, un programma di vita, ma anche una preparazione ed un  anticipo del Regno di Dio.L’ultima delle opere di misericordia corporali “Seppellire i morti” non si trova nell’elenco di Matteo, ma con quest’opera di misericordia ci è chiesto di “seppellire” i morti in terra, di inumare o comunque di dare loro un sepolcro, una tomba, come avvenne anche per Cristo, ma con la speranza della risurrezione. Dobbiamo anche ricordare che Gesù ha pianto sulla tomba dell’amico Lazzaro e lo ha risuscitato (Gv 11,1-45), altri due esempi di Gesù di fronte alla morte sono la risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5, 22-43) e quella del ragazzo di Nain (Lc 7, 11- 17). Dobbiamo anche, come cristiani, tener conto delle modalità e del rispetto nella sepoltura. Gesù è stato cosparso di unguenti, avvolto in un lenzuolo e deposto in un sepolcro nuovo, scavato nella roccia, chiuso da una pietra, con la cura e l’attenzione delle donne e di Giuseppe d’Arimatea. La sepoltura di Gesù fa parte del kerigma (annuncio) della Chiesa primitiva. Il Nuovo Testamento ci offre anche la testimonianza della sepoltura di Giovanni Battista (Mc 6, 29) e di Stefano (Att 8, 2), ma già nell’Antico Testamento è presentata l’attenzione e la cura per i morti e la loro sepoltura: Gen 25, 9 (la sepoltura di Abramo); Sir 38, 16; Sal 79, 2-3; ecc. La mancata sepoltura è un segno di disprezzo e di maledizione (Re 9, 10; Ger 16, 6). La storia di Tobia è emblematica della cura nel seppellire i morti, anche a rischio della vita, emerge dalla Bibbia la figura di Tobia, simbolo di quest’opera di misericordia. Pur di non lasciare insepolti e abbandonati nelle strade i cadaveri dei suoi fratelli ebrei perseguitati, metteva a rischio non solo il suo patrimonio, ma anche la sua famiglia e la sua vita.

AttualizzazioneOggi viviamo con un certo disagio la morte ed i morti stessi, cercando di allontanare il problema, di relegarlo lontano, nasconderlo, dimenticarlo.Ma non è così, i conti con la morte li dobbiamo fare e non solo per noi stessi, ma anche per le persone accanto a noi che ci lasciano.Seppellire i morti è un’alta espressione di pietà umana, ma anche testimonianza della nostra fede nella vita piena ed eterna in Dio.Mi soffermerò anche su qualche nota strettamente tecnico-scientifica.Nel momento in cui una persona decede qualsiasi medico può eseguire la constatazione di morte con un breve scritto, poi, secondo la Legge di polizia mortuaria, un altro medico, dalle 15 ore dal decesso, ma entro le 30 ore, certifica la morte. E’ necessario questo passaggio a scanso di qualsiasi problematica. Dopo il secondo certificato medico (in genere è un medico che ha la delega dal direttore sanitario) si può seppellire il deceduto.Riguardo al decesso di una persona, non si può liquidare la cosa solo con un certificato, spesso gli interventi che si eseguono rispondono più a preoccupazioni di tipo igienistico, che non a moti di compassione.Dobbiamo anche superare alcune paure.Prima il soggetto era vivo, poi è morto, sono cambiamenti di stato e, scusate la forte espressione, il morto non diventa “un sacco di immondizie” o, al contrario, si crea un attaccamento morboso con la salma.Altro problema il fatto che al giorno d’oggi sempre più si utilizza la cremazione, modalità questa usata anche nell’antichità.Non solo la cremazione, ma anche la collocazione e la dispersione delle ceneri.La cremazione è oggi permessa dalla Chiesa e accompagnata da apposite preghiere nel nuovo Rituale. Voglio qui ricordare che nessuna indagine è possibile sulle ceneri, neppure quella del DNA.Al di là della forma ciò di cui dobbiamo avere molta cura è tutto ciò che riguarda la morte con un atteggiamento di delicatezza e di umanità, senza fretta e in uno spirito di fede e di speranza, in primo luogo nei confronti del defunto, ma soprattutto nei confronti di chi rimane.E’ necessario al giorno d’oggi prepararsi eventualmente anche con un testamento olografo (scritto di proprio pugno) e stabilire le opportune disposizioni per il nostro funerale e la nostra sepoltura. Oggi si ha come l’impressione che anche “nostra sorella morte” – come la chiamava San Francesco – navighi in brutte acque, anch’essa svestita del mistero e della serietà che le compete.Di fatto, l’atteggiamento verso la morte oggi è quello di una tremenda paura. L’idea stessa viene rimossa. Non se ne parla. Diciamo, in modo impersonale, che “si muore”, ma non consideriamo seriamente che un giorno o l’altro anche noi moriremo. È un problema che riguarda gli altri.La conseguenza prevedibile è uno sforzo collettivo di rimuovere l’idea stessa della morte, oppure di esorcizzarla in qualsiasi modo.Quando si parla della carità espressa nel seppellire i morti, si intende sottolineare l’urgenza di accompagnare con fede e amore chi vive questa tappa necessaria della vita, rispettando la situazione psicologica del malato e i suoi limiti nel sopportare il dolore. Questa opera di misericordia corporale, applicata ai nostri tempi, rimanda a quest’ultima considerazione: mentre condanniamo l’accanimento terapeutico, siamo fermi nel mostrare come, con l’eutanasia, si rischi di rubare alla persona l’opportunità di vivere la propria morte, che ritengo possa essere il momento di maggiore lucidità interiore e di più profonda purificazione. Traggo alcuni pensieri anche da un’omelia del nostro Arcivescovo: “Già a livello umano la pratica di seppellire i morti è sempre stata segno di civiltà. Tale prassi implica infatti, più o meno consapevolmente, tre valori di grande significato: il rispetto della dignità della persona che comprende anche la cura dei suoi resti mortali (da sottrarre agli animali o alla possibile profanazione da parte di nemici o di malintenzionati), la convinzione che in qualche modo ci sia una continuità della vita anche dopo la morte, la consapevolezza che il defunto non esca dalla comunità umana.Questi tre aspetti positivi hanno ottenuto nella visione cristiana nuova luce e nuovo significato. Anche Gesù è stato sepolto. Giuseppe di Arimatea chiede il corpo a Pilato e mette a disposizione della sepoltura di Gesù il suo sepolcro nuovo; lo stesso Giuseppe che con Nicodemo provvede alla sepoltura; le donne che, trascorso il sabato, si recano al sepolcro con aromi per completare la sepoltura. Il mattino di Pasqua cambia però tutto. Le donne trovano il sepolcro vuoto e incontrano poi il Risorto che le manda ad annunciare che Lui ha vinto la morte, che Lui, il Crocifisso, è risorto. La Pasqua apre così un significato nuovo alla sepoltura, che diventa non più solo un gesto di pietà, ma un segno di speranza nella risurrezione”.L’intera comunità cristiana deve vivere, sapendo che chi è morto non si estrania da essa: continua, infatti, nel Signore una reale comunione tra tutti gli appartenenti alla Chiesa, vivi e defunti. Chi è vivo prega per la salvezza del defunto, ma confida anche nella preghiera di chi è ora presso il Signore, non solo dei martiri e dei santi, ma anche dei propri cari e conoscenti che spera beati nel Signore.Ancora un ultimo pensiero. Il cimitero è il luogo che esprime tre importanti valori. Anzitutto evidenzia il rispetto per i nostri morti, per i loro resti mortali, per la loro dignità; ci dà poi modo di esprimere la nostra fede in una vita che continua; indica infine la non separazione tra la comunità dei vivi e quella dei defunti, quanto piuttosto una reale comunione nel ricordo e nella preghiera reciproca. Il cimitero deve restare il luogo dove aver la possibilità di portare un fiore, di recitare una preghiera sulla tomba dei propri cari, ma anche delle persone conosciute, parte della comunità. Il ricordo cristiano dei morti è fondamentale non solo per loro, ma per noi. La presenza dei cristiani ai funerali, costituisce il commiato della comunità di fede alla sorella o al fratello partiti per l’incontro definitivo con il Signore. Il culto per la salma di chi ci ha lasciati è la continuazione del rispetto e della venerazione dovuti alle persone vive. Per essere autentico il culto dei morti deve riflettere un sincero impegno per la vita. Sono il ricordo e la preghiera il più bel sepolcro che possiamo fare ai nostri defunti.

Clara Zuch