Se parlare di tortura è ancora un tabù
6 Febbraio 2017
Il presidente americano, in un’intervista all’Abc, ha sdoganato il waterboarding giustificandone l’uso con il diritto degli Stati Uniti di combattere “il fuoco con il fuoco” (“fire with fire”). Nulla, purtroppo, di sorprendente da parte del successore di Obama: già nel febbraio scorso, intervenendo in South Carolina durante la campagna elettorale, aveva affermato che questa tecnica di interrogatorio (con cui si infligge alle persone la sensazione di stare morendo annegate) “funziona”, assicurando ai propri sostenitori che, una volta giunto alla Casa Bianca, l’avrebbe resa persino peggiore.Dinanzi a queste esternazioni ci saremo aspettati un moto condiviso di indignazione nel nostro Paese. In primis da parte di quanti, in questi mesi ed in questi giorni, hanno speso fiumi di parole per ribadire il proprio impegno personale ed istituzionale nella ricerca della verità su quanto avvenuto al giovane ricercatore friulano un anno fa a Il Cairo.Ma nulla di tutto questo è avvenuto e, tranne qualche isolata voce di protesta, le parole del presidente sono passate pressochè sotto silenzio, venendo bollate, al massimo, come una delle sue “sparate” di inizio mandato.Il problema è che parlare di tortura in Italia rimane ancora un tabù.La Convenzione Onu sulla tortura del 1989 obbliga gli Stati aderenti ad inserire questo reato nei propri Codici penali: così è avvenuto – ad esempio – in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna.Sino ad oggi, però, il nostro Paese non ha ritenuto di dover ottemperare a quanto previsto dalle Nazioni Unite. È almeno dal 1998 che il Parlamento cerca di approvare una legge che introduca tale fattispecie giuridica nel nostro Ordinamento: tentativi vanificati dai veti incrociati posti, soprattutto, da chi ne teme un’equivoca applicazione all’attività delle Forze dell’Ordine.Qualcuno obietta: Trump, in fondo, prevede di applicare la tortura solo ai terroristi per estorcere loro importanti informazioni che potranno salvare vite umane.Però, questa, è l’atavica motivazione (“il fine giustifica i mezzi”) che ogni torturatore pone alla base delle proprie azioni per “sanare” anche gli eventuali “effetti collaterali”.Giustificare una sola volta la tortura significa giustificarla sempre.Forse è il caso di andare a rileggere le parole pronunciate dalla mamma di Giulio, la signora Paola, lo scorso anno durante una conferenza stampa in Senato: “È dal nazifascismo che noi in Italia non ci troviamo di fronte ad una tortura come quella subita da nostro figlio… Sul viso di Giulio ho visto il male del mondo”.Ha scritto Leandro Konder, filosofo e sociologo brasiliano che fu vittima di tortura da parte della Polizia del suo Paese: “Quando si imbatte in un ’mostro morale”, durante il suo lavoro, il torturatore dispone del potere di distruggerlo. Ma la vittoria che può raggiungere è, di fatto, una vittoria di Pirro: non vale niente. Egli può distruggere l’altro ma si sarà trasformato lui stesso in un ’mostro morale”. Nella realtà, preparandosi ad esercitare la sua abominevole funzione, il torturatore non sta combattendo la mostruosità: sta aderendo alle legione dei ’mostri morali”.Mettiamo da parte le parole inutili e retoriche e cerchiamo di onorare la memoria di Giulio anche introducendo nel nostro Paese il reato di tortura.
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