Il diaconato riduce le distanze fra il presbiterio ed i fedeli
26 Maggio 2017
Prosegue il nostro cammino alla scoperta della presenza del Diaconato permanente in diocesi. Questa settimana presentiamo l’intervista a Vincenzo Persi.
Come è nata la Sua vocazione al diaconato e al servizio della Chiesa? Ci racconti un po’ della sua formazione e dell’esperienza maturata negli anni.
È difficile rispondere a questa domanda, penso che prima di parlare di vocazione al diaconato bisognerebbe scoprire la propria Vocazione. Questa nasce da adolescente quando ricoverato al Preventorio di Villa San Giusto di Gorizia svolgevo il servizio di chierichetto e spesso andavo, accompagnato da un religioso, a far visita nei reparti. Rientrato in famiglia le cose son cambiate. Comunque l’anteprima della vocazione diaconale avviene accogliendo l’invito di un mio collega di lavoro: a San Martino di Terzo al sabato sera nei Tempi dell’Avvento e Quaresima, si tenevano degli incontri sulla Parola di Dio, guidati da un sacerdote del PIME padre Claudio Bortolossi. A questi incontri partecipavo con mia moglie ed era bello vedere, oltre gli adulti, molti giovani. Sempre questo collega mi invitò a partecipare in Abbazia di Rosazzo, a quattro fine settimana (venerdì sera e sabato mattina e pomeriggio) ad un corso, sempre sulla Parola, tenuta da docenti dell’Istituto di scienze religiose di Udine. Da qui il primo approccio alla comunità diaconale, di seguito la conoscenza e la richiesta di accesso.
La famiglia è stata certamente coinvolta in questo tipo di scelta. Quanto importante è il sostegno di sua moglie e dei suoi familiari nella sua missione evangelizzatrice nella chiesa diocesana?
È impossibile portare avanti la scelta del diaconato senza il coinvolgimento della famiglia, soprattutto della sposa. È lei che si deve far carico di tutte le “assenze” del marito. Per quattro anni di formazione ero assente tre giorni alla settimana e in seguito per altri tre anni due volte alla settimana, perciò devo solo ringraziare mia moglie per la disponibilità e alla sua adesione al mio cammino. Mia moglie, come penso di tutte le mogli dei diaconi, conoscendomi è la più “scrupolosa” osservatrice e consigliera. È sempre lei che “corregge” e mi aiuta ad essere disponibile e paziente con chi incontro. Questo è un grande aiuto per me perché con le sue osservazioni e le sue critiche, riesco ad evitare di andare “fuori strada”. Con i figli è diverso, loro hanno vissuto con curiosità tutto questo. Era bello vedere che in tre studiavamo in casa ognuno nella propria stanza. Nel contempo si sono anche divertiti, quando rivelavo loro il risultato di un esame sostenuto o a ripetermi le raccomandazioni che io davo a loro.
Oltre all’annuncio della Parola, quale è secondo lei l’altra dimensione della “missione” che il diacono deve avere nel contribuire alla costruzione e alla crescita delle comunità nelle quali opera? Basti pensare ad esempio alla vostra presenza che infatti non si concretizza solo a livello ecclesiale ma anche a livello civile e sociale…
Tutti abbiamo doni e capacità che si esprimono in aspirazioni e progetti personali. Se qualcuno li riconosce, diventano scelte di vita. Per me, l’impatto decisivo è stato l’incontro con l’Arcivescovo, Mons. Antonio Vitale Bommarco, e con il suo progetto per Ronchi: una “unità pastorale” con un parroco, un sacerdote per la pastorale giovanile, un sacerdote per le confessioni e colloqui con i fedeli, infine un diacono con anche il compito di visitare gli ammalati ed anziani. Mi sono detto che quel pensiero combaciava perfettamente con le mie aspirazioni, perché mi è subito tornato alla mente l’esperienza vissuta a Villa San Giusto, per cui ero disponibile per questa esperienza. Mi sentivo pronto ad iniziare questo cammino, forte anche del fatto di essere un volontario di un’ associazione che assiste i malati neoplastici già avevo un po’ di esperienza, perché la mia attività in questa associazione si svolgeva nelle case dell’ammalato. Ritornando al progetto dell’Arcivescovo, nel congedarmi, ci siamo salutati con l’augurio di essere, alla fine del cammino, degno di ricevere il ministero del diaconato e che andasse a buon termine il suo desiderio. Questo progetto non si è potuto ancora realizzare.
Ci sono percorsi e “orizzonti pastorali” futuri di collaborazione e di unità tra le diverse realtà parrocchiali che formano il nostro tessuto ecclesiale. Lei cosa ne pensa?
In questi “orizzonti” si dovranno collocare meglio la figura e la missione di noi diaconi. Da molti anni sento parlare di “fedeli della Domenica”, pastorale d’insieme, pastorale integrata e da oltre vent’anni di Unità Pastorale. Allo stesso tempo sorgono altre collaborazioni come l’oratorio diffuso. Sono idee e progetti in continua evoluzione che chiedono un dialogo continuo e costruttivo fra tutte le persone disponibili ad assumersi responsabilità. Noi, diaconi, questa disponibilità ce l’abbiamo e vorremmo fosse accolta in ruoli non soltanto subalterni.
Quali sono i punti di forza e quali quelli di debolezza che si sente di evidenziare a riguardo del ministero diaconale oggi?
Non si può dire che sia stato compreso il diaconato in Diocesi, non solo dai sacerdoti, ma anche dalle Associazioni laicali. Ancora oggi perdura questa situazione, forse non c’è stato un dibattito approfondito nel Clero di allora, ma neanche tra le realtà cattoliche della diocesi. La nostra forza e la nostra debolezza, quindi, sta oltre che nella classe sacerdotale, anche in molti strati della Chiesa. Sono poche quelle persone che si sono incuriositi di andare a leggersi i documenti che riguardano questo ministero, hanno pensato che non c’era bisogno di un altro profilo ministeriale. C’è perfino chi ci considera chierichetti adulti. Certamente anche noi diaconi abbiamo le nostre responsabilità, non abbiamo saputo dimostrare che la nostra presenza non era una cosa inutile, ma voleva rappresentare come ministero un impegno della Chiesa tutta. Quello di essere vicino alle sofferenze e alle difficoltà della povera gente. Pochi sanno quali sono i nostri compiti nel ministero: servizio alla Carità, servizio alla Parola, servizio all’Altare. Per sapere quali sono i compiti basta leggere la Costituzione dogmatica della Chiesa: Lumen gentium, n° 29. È opportuno anche leggere il Direttorio del diaconato permanente, per conoscere le difficoltà che un diacono ha dovuto superare per arrivare a fine percorso e ottenere il ministero diaconale dalle mani del proprio vescovo.
“Voi diaconi avete molto da dare. Pensiamo al valore del discernimento. All’interno del presbiterio, voi potete essere una voce autorevole per mostrare la tensione che c’è tra il dovere e il volere, le tensioni che si vivono all’interno della vita familiare – voi avete una suocera! – come pure le benedizioni che si vivono all’interno della vita familiare”. Questa è stata la risposta di Papa Francesco a un diacono, durante l’incontro con i sacerdoti e i consacrati nel Duomo di Milano lo scorso 25 marzo. E ancora “Ma dobbiamo stare attenti a non vedere i diaconi come mezzi preti e mezzi laici”, ha ammonito Francesco […] “Guardarli così ci fa male e fa male a loro. Questo modo di considerarli toglie forza al carisma proprio del diaconato nella vita della Chiesa. E nemmeno va bene l’immagine del diacono come una specie di intermediario tra i fedeli e i pastori”. “Né a metà cammino fra fedeli e laici, né a metà cammino tra pastori e fedeli”. Come commenta questo invito rivolto dal Papa a voi diaconi? Sono state richiamate poi anche le “tentazioni” del clericalismo e del funzionalismo…
È difficile non essere d’accordo con il Santo Padre, anche molti vescovi (intervistati, sul diaconato, dalla Rivista mensile del Clero) hanno lo stesso pensiero. È proprio questo il problema: essere “mezzi”. Noi non siamo “autonomi” come i sacerdoti, abbiamo un sacerdote referente diocesano per il diaconato. Questo ha un compito difficile: deve curare la nostra formazione permanente. Ci segue ed a lui ci rivolgiamo per ogni necessità. In questo momento è don Alessandro Biasin. È sempre lui che ci aiuta a non cadere in quelle tentazioni che preoccupano il Santo Padre. Il pericolo di essere “mezzi” di una cosa o di un’altra è anche una nostra preoccupazione. Mi piace ricordare il pensiero di un vescovo: “il diacono riduce le distanze tra il presbiterio e i fedeli, perché non è un laico, svolge parte della sua attività nel presbiterio, ma vive tra i laici”. Questo non è fare da intermediario, ma camminare assieme tenendosi per mano verso la meta. Sta nel nostro discernimento. Per questo oltre a don Alessandro, siamo tenuti ad avere un confessore che ci fa anche da padre spirituale.
Il diacono è dunque un “custode del servizio” non solo alla chiesa ma anche al popolo. Se la sente di lanciare un messaggio che riguarda questa vocazione alle nuove generazioni? Una chiamata da non vivere in maniera individualista ma tra e per la gente…
Ogni fedele può sentire il fascino del dedicare se stesso, oltre che alla famiglia, anche alla Comunità in cui ha già fatto la sua esperienza di fede e di servizio. Con il Diaconato gli orizzonti, lui lo sa, si dilateranno: oltre alla sua Comunità potrà offrire un prezioso servizio anche alla pastorale della zona di riferimento e della Diocesi, nei settori in cui ha maturato specifiche competenze. Perciò noi dovremmo essere svincolati dall’appartenenza ad una singola comunità per operare su una comunità allargata. Una persona che si mette a disposizione della Chiesa difficilmente può vivere la chiamata in maniera individualista, rischierebbe l’isolamento e la perdita di contatto con la comunità.
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