La contea principesca di Gorizia e Gradisca dal punto di vista amministrativo costituiva un “paese” del Land del Litorale (Küstenland), una delle 15 regioni che formavano la parte austriaca dell’impero asburgico. Essa si estendeva su di una superficie di oltre 2.900 km quadrati ed era caratterizzata da una composizione linguistica variegata, come per altro la gran parte dei domini di Casa d’Austria.Dei quasi 260.749 abitanti (censimento ufficiale del 1910) 154.564 erano di lingua slovena, occupanti le valli dell’Isonzo e del Vipacco, il Carso goriziano ed in significativo aumento nella stessa Gorizia, capoluogo provinciale. Gli italiani, 90.146 nel 1910, costituivano la maggioranza della città di Gorizia e dei distretti politici di Monfalcone, Gradisca, Cormons e Cervignano; decisamente contenuta la presenza germanofona (4.480) e quella di altri gruppi. Quasi tutti gli 11.000 stranieri residenti erano cittadini del confinante regno d’Italia, emigrati in cerca d’occupazione. La stessa presenza nazionale italiana era al suo interno suddivisa, nella parlata abituale, tra friulani, bisiachi e gradesi.Il territorio provinciale era leggermente più esteso di quello dell’Arcidiocesi di Gorizia, ripartita in 16 decanati e 194 stazioni curate, affidate a 205 sacerdoti (i preti diocesani, nel 1915 erano 365), di cui 81 impegnati nella cura delle popolazioni italiane del Friuli orientale (escluso il capoluogo).La maggioranza della popolazione era dedita all’agricoltura, in particolare piccoli proprietari e mezzadri nel latifondo collinare e pianeggiante che trovavano espressione politica nel movimento cattolico e cooperativistico, fedele alla dinastia, degnamente rappresentato da Luigi Faidutti e Giuseppe Bugatto, ambedue deputati al parlamento di Vienna.La componente sociale più elevata, (grandi proprietari, borghesia urbana, élites intellettuali), confluiva politicamente nel partito liberal nazionale, di matrice irredentista, dominante nel comune di Gorizia dalla seconda metà del XIX secolo sino al 1915, rappresentante “un’esigua, anche se influente, minoranza” (L. Fabi, La gente e la guerra, p. 26).Questa divisione sommaria in due schieramenti contrapposti non deve trarre in inganno, giacché la distinzione “irredentisti” – “austriacanti” conobbe una vasta gamma di sfumature, determinata, oltre che dall’opzione nazionale, da scelte ed aspirazioni proprie di una realtà in progressiva evoluzione sul piano sociale, economico e politico. Se da un canto non tutti gli esponenti liberal nazionali furono alieni da compromessi e tracce di lealismo asburgico, dall’altro il mondo cattolico, pur professando la propria fedeltà alla patria austriaca, ebbe un’attenzione viva alla difesa della presenza italiana dinanzi alle rivendicazioni crescenti della componente slavofona (si pensi al campo dell’istruzione scolastica) o alle rendite di posizione appannaggio della burocrazia germanofona.L’introduzione del suffragio universale maschile, nel 1907, allargò la base elettorale favorendo di lì a poco il ribaltamento dei rapporti di forza nella contea a vantaggio del partito popolare, sancito dalla nomina di Faidutti a capitano provinciale dopo le elezioni del 1913. I liberali, quantunque ridimensionati, conservarono il predominio nel capoluogo e in altri centri urbani minori. In campo sloveno, il mondo cattolico non conservò un orientamento unitario poiché prevalse il principio della tutela degli interessi nazionali.
Lo scoppio della guerraPer l’Austria Ungheria la guerra con la Serbia iniziò ufficialmente ad un mese esatto dall’attentato di Sarajevo, il 28 luglio, cui fece seguito, dopo pochi giorni, l’apertura delle ostilità contro il temibile protettore di Belgrado, l’impero russo.Nel Goriziano (e non solo) la partenza degli arruolati alla volta dei fronti serbo e galiziano fu vissuta alla stregua d’una festa di popolo, con tanto di sfilate accompagnate da bande musicali. Ci si attendeva una rapida e vittoriosa campagna di conquista, ma la realtà fu purtroppo ben lontana dalle facili previsioni.La gioia si volse presto in lutto: le truppe zariste in breve tempo occuparono quasi tutta la Galizia con un bottino di 119.600 prigionieri, mentre sul campo persero la vita oltre 250.000 soldati austriaci, tra i quali anche militi provenienti dalla nostra provincia.Pur lontano dalle operazioni belliche, la guerra segnò duramente la vita dei rimasti, laddove le famiglie persero gli uomini validi e i lavori gravarono sulle spalle delle fasce socialmente più deboli. La solidarietà e l’assistenza si mobilitarono, così pure la Croce rossa austriaca, un pacifico esercito che in tutto il nostro Friuli raccolse vettovaglie a favore dei soldati impegnati al fronte.Naturalmente tutto precipitò nel maggio del 1915, allorché la domenica di Pentecoste l’ex alleato regno d’Italia dichiarò guerra alla monarchia asburgica e il Friuli orientale fu invaso sino al fiume Isonzo, dove s’era arroccata la difesa militare austriaca. Fu l’inizio di una tragedia dalle dimensioni che non conoscono precedenti nella storia.L’arrivo delle truppe sabaude fu gravido di tristi conseguenze in quanto esse, in spregio alle convenzioni internazionali, procedettero ad un’immediata assimilazione di questi territori nella compagine statuale italiana; come primo passo, occorreva eliminare ogni ostacolo che fosse riconducibile alla precedente sovranità: ecco spiegato l’arresto e l’internamento di tutti coloro che erano stati ritenuti “austriacanti” o che parevano comunque contrari, diffidenti o semplicemente indifferenti al nuovo stato delle cose (F. e G. Milocco, Fratelli d’Italia, p. 76).Camillo Medeot ha documentato la premeditazione di questo processo epurativo che coinvolse sacerdoti, animatori del mondo cooperativistico, podestà legati al partito popolare (accusati di “Faiduttismo”), spesso vittime di maldicenze e di regolamenti di conti camuffati da un affettato zelo patriottico. In tutto il Litorale il numero degli internati in Italia ammontò a circa 4.000 persone (F. Cecotti, Un esilio che non ha pari, p. 83).Molto più rilevante fu il movimento di popolazione disposto dall’autorità asburgica fin da quei giorni, con lo scopo di allontanare i civili dalle zone coinvolte dalle operazioni belliche: dalla nostra contea partirono almeno 100.000 persone, alla volta delle “città di legno”, i campi profughi appositamente costruiti per ospitare i fuggiaschi.Celebri i campi di Wagna e Pottendorf in Stiria (per gli italiani) e di Bruck an der Leitha, Steinklamm e Gmünd per gli sloveni e i croati (P. Malni, Un esilio che non ha pari, p. 123). Altri 20.000, invece, subirono una sorte similare alla volta delle province del regno sabaudo (Malni, cit., p. 106).Complessivamente, il Goriziano subì una devastazione su vasta scala che produsse ferite profonde sul tessuto sociale, nazionale, economico, urbanistico ed anche storico-artistico: fu la fine di quella “stagione diocesana esaltante” vissuta negli anni immediatamente precedenti (Luigi Tavano, La diocesi di Gorizia 1750-1947, p. 151).
La diocesi nel conflittoDal 1906 la chiesa goriziana era retta dal principe arcivescovo mons. Francesco Borgia Sedej. La storia gli riconosce la ben meritata qualifica di “pastore dei suoi popoli”, per riprendere il titolo del prezioso studio condotto dall’amico Ivan Portelli proprio sul suo equanime e tormentato apostolato nelle tragiche congiunture del conflitto e degli anni susseguenti.Nel 1914 egli dispose pubbliche preghiere “per la patria, per la pace e per l’unità dei popoli” e non mancarono le partecipate processioni ai locali santuari mariani “per la vittoria e la pace”. Il clero supportò l’impegno bellico con l’adempimento fedele dei propri doveri, in particolare nel settore dell’assistenza religiosa dei militari e dei feriti, pur denunziando la guerra come castigo divino, meritato dal rifiuto collettivo dei diritti sociali di Cristo e della sua Chiesa.Soprattutto dopo il tradimento dell’Italia “antica ma nostra perfida alleata”, come scrisse mons. Sedej, la dimensione apocalittica dell’esperienza bellica fu largamente sperimentata, allorché il fronte dal maggio 1915 all’ottobre 1917 segnò il territorio diocesano: in pochi giorni 60 sacerdoti friulani e sloveni furono tratti in arresto ed internati in varie località italiane, con l’accusa di austriacantismo, mentre lo stesso principe arcivescovo trasferì la curia prima a Ravne e poi nell’abbazia cistercense di Sticna (Carniola), assieme al Seminario Centrale, continuando ad occuparsi del gregge disperso come meglio poté. I preti rimasero accanto alle popolazioni e ne seguirono spontaneamente le sorti, a dispetto di gravi rischi ed impedimenti.La Santa Sede affidò all’arcivescovo di Udine il compito di sostituire i sacerdoti internati con 35 “reggenti militari”, provenienti dal clero del vicino Friuli e perciò facilitati nell’azione pastorale nei paesi occupati; si trattò per lo più di giovani ancora inesperti, non agevolati dalle difficili circostanze.Ovviamente non mancarono le difficoltà da parte delle nostre popolazioni, costrette ad accettare con riluttanza i più o meno espliciti rudimenti di propaganda nazionale che condivano l’istruzione catechistica da essi impartita, in conformità alle aspettative dei Comandi militari sabaudi (I. Portelli).
Il difficile dopoguerraDopo la rotta di Caporetto e lo spostamento del fronte sul Piave, parve profilarsi un lento ritorno della normalità. Iniziarono i primi faticosi rientri dei profughi, anche mons. Sedej ed altri sacerdoti fecero ritorno, mancando un terzo del clero diocesano.La definitiva vittoria italiana non risolse i problemi: si imponeva una ricostruzione non solo materiale ma anche morale e sociale; le nuove autorità inaugurarono una politica nazionale aggressiva – proseguita ed accentuata più tardi dal fascismo – a svantaggio delle componenti slovene e croate che guardavano con interesse al vicino neocostituito stato jugoslavo.La retorica della vittoria giunse ad escludere dalla memoria ufficiale le migliaia di quanti caddero per un impero sconfitto e defunto. Siffatto stato di cose rese sempre più improbabile l’instaurazione di una concordia tra le diverse nazionalità da secoli qui compresenti, preludio alla tragedia che segnò il Goriziano negli anni del secondo conflitto mondiale e seguenti.La marginalizzazione progressiva e l’isolamento di Gorizia e del suo territorio produssero effetti tutt’ora riscontrabili.La Chiesa subì anch’essa le conseguenze di tali eventi: la persecuzione e le dimissioni forzate di mons. Sedej nel 1931, il tentativo di “romanizzazione” degli anni Trenta sino allo smembramento definitivo della compagine diocesana. Colpiti da tante sciagure, clero e popolo dettero prova di una testimonianza cristiana che neppure le congiunture più dolorose valsero ad oscurare.Per concludere, affido ai lettori di “Voce” un auspicio che presuppone un impegno: in un tempo segnato dai confini e dalla loro evoluzione storica, tocca ai cristiani proporre la testimonianza di un’unità che si alimenta delle differenze, senza infingimenti o forzature, secondo la natura che è propria della nostra stessa Chiesa che si proclama cattolica, ossia universale. Saremo in grado di rispondere con coerenza a questa sfida?