Verso l’ultima Thule

È un errore vedere l’avvento della Grande guerra su Gorizia come qualcosa di semplicemente travolgente, capace di colpire il territorio nel sonno e di trasformarlo al risveglio in qualcosa di completamente diverso, come in una metamorfosi kafkiana.Questa chiave di lettura può essere applicata forse alla storia militare, dove effettivamente il primo grande conflitto del mondo industrializzato viene affrontato senza una chiara consapevolezza dell’enorme potenziale tecnologico che stava per essere messo in campo e quindi nella presunzione effimera che tutto si sarebbe potuto risolvere in poco tempo e con poco danno.O al massimo può essere applicata alla sottovalutazione degli eventi dei primissimi giorni di guerra contro l’Italia, quando la popolazione goriziana si trova effettivamente catapultata in qualcosa di ancora imponderabile. È la situazione che ci viene magistralmente rappresentata da Italo Svevo nella Coscienza di Zeno, quando il suo protagonista il 23 maggio del 1915 si trova in villeggiatura a Lucinico e si fa sorprendere dall’inizio della guerra addirittura nel corso di una spensierata passeggiata mattutina, mentre la colazione lo aspetta.Non altrettanto invece si può dire in una prospettiva storico-economica, dove il tema di cosa sarebbe potuta diventare Gorizia se estromessa dal contesto imperiale e collocata in orbita italiana (con o senza una guerra) esiste da ben prima del 1914.Luigi Pajer, capitano provinciale, filogovernativo, ma tra i principali esponenti del partito liberale goriziano (quindi in un certo senso una figura di sintesi nel panorama cittadino) lancia il suo ammonimento già nel 1878, in forma solenne aprendo una seduta dietale: se estromessa dalla compagine statale asburgica, la prospettiva per Gorizia – questa la sua tesi – è quella di diventare “l’estremo angiporto, l’ultima appendice tributaria del regno d’Italia”, la sua ultima Thule, evocando così addirittura la leggendaria isola nordica collocata all’estrema periferia del mondo.Questo avviene trentacinque anni prima dello scoppio della guerra, le tensioni nazionali in città sono appena cominciate, ma siamo ancora lontani dalla contrapposizione dura che segnerà ad esempio la seconda metà degli anni novanta.Il tema però è già estremamente circostanziato: Gorizia perderebbe la sua baricentricità sull’asse nord-sud “per solo vezzo di aggiungersi – sono ancora le parole di Pajer – come estrema sfumatura al Regno d’Italia”.La precocità dell’analisi non deve però sorprendere troppo. Il dibattito goriziano degli anni settanta avviene all’interno di un osservatorio tutto sommato privilegiato perché la contea è reduce dalla guerra del 1866, che non l’aveva coinvolta militarmente ma, come noto, aveva riposizionato un confine di Stato tra la regione isontina e quella veneta, dopo che per un sessantennio i due territori erano stati separati da una semplice linea amministrativa.È quindi una fase in cui Gorizia può cimentarsi bene nel confronto tra le due alternative di posizionamento: quella sull’asse est-ovest, cioè in ultima analisi l’ingresso nell’orbita italiana, che gli ultimi decenni avevano permesso di testare bene collocando l’Isontino in concorrenza diretta con il Lombardo Veneto; oppure quella sulla direttrice nord-sud, litoraneo-transalpina, che ha accompagnato lo sviluppo della città per tre secoli fino al periodo napoleonico.Da qui in poi decollerà il duello tra le tesi irredentiste e quelle filoasburgiche sullo sfondo dello scontro nazionale ma, sfrondata della sovrastruttura identitaria, la questione goriziana che si risolverà nella tragedia della prima guerra mondiale in ultima analisi è già tutta qui, ed è in buona parte scritta, come si può vedere.È interessante ad esempio la dinamica del dibattito economico immediatamente successivo alla guerra del ’66: dopo un primo momento di sgomento, in cui la previsione prevalente è quella della débâcle della produzione isontina, privata dello sbocco veneto, comincia a riaffiorare il ricordo delle opportunità riservate dalla geografia economica alla Gorizia di antico regime.Citando dalla folta disputa: “La relazione della Provincia con Trieste, che è mercato principale per i prodotti del Goriziano, non si variarono pei recenti avvenimenti”, come a voler ricordare che la spina dorsale economica dell’Impero è ancora l’asse nord-sud e non quella est-ovest, che il Litorale raccoglie come un imbuto il grande bacino danubiano e che per raggiungerlo sarà sempre necessario scendere la valle dell’Isonzo e quindi coinvolgere il territorio goriziano.Non è un caso ad esempio che gli anni dopo il ’66 siano quelli dell’inizio della storia turistica di Grado, non più minacciata dalla concorrenza delle località balneari venete.La vera sintesi della nuova (e vecchia) geografia economica è tuttavia probabilmente nelle vie di comunicazione. L’uscita della Pontebbana dai confini della monarchia sia nella sua versione ferroviaria che in quella stradale riaccende l’interesse per un collegamento ferroviario diretto tra le province transalpine e il porto di Trieste che scenda lungo la valle dell’Isonzo (quella che diventerà nel 1906 la Transalpina) e lo stesso vale per la parallela direttrice stradale, cioè la vecchia via della Carinzia, che da Raibl scende lungo il fiume fino a Gorizia, da decenni in inesorabile decadenza.Ancora più interessante è il dibattito che si viene a creare dopo la grande depressione degli anni ’80, quella della dilagante miseria, della pellagra e della prima ingente ondata di emigrazione verso le Americhe. In un celebre trattatello dato alle stampe nel 1888 dal presidente della Camera di commercio Eugenio Ritter nel tentativo di adunare i diversi soggetti economici sul tema del che fare per uscire dalla crisi, la proposta è quella di una riconversione dalla cerealicoltura tradizionale ad un’agricoltura più moderna e orientata al mercato. Lo slogan (che farebbe inorridire gli odierni guru del marketing territoriale) è che Gorizia diventi il “verziere dell’Austria”, cioè una provincia imperiale meridionale la cui naturale vocazione agricola e vinicola possa essere messa al servizio delle province settentrionali.Può sorprendere un indirizzo così sbilanciato sul settore primario per un presidente di un ente camerale a spiccata vocazione industrialista e ultimo rappresentante della stirpe di imprenditori che ha industrializzato Gorizia, ma di nuovo nella difficoltà a prevalere è lo sguardo alla direzione economica della longitudine. Lo stesso asse strategico, se vogliamo, che disegnava i flussi commerciali della Gorizia cinquecentesca (carreggi di ferro carinziano che scendono la valle dell’Isonzo per risalirla con i vini goriziani), come a lungo ci ha ricordato lo storico Ugo Tucci (da poco scomparso) nei suoi vecchi studi sulla strada alpina del Predil.E così via. L’elenco potrebbe proseguire con il semilavorato serico settecentesco che per un secolo ha rifornito le manifatture tessili d’oltralpe, a delineare quindi un filo rosso che di fatto accompagna mezzo millennio di storia economica goriziana. È noto però come la vicenda sia andata a finire all’inizio del Novecento.Per questo motivo la prima guerra mondiale è realmente un grande momento di cesura della storia goriziana, e non solo di quella novecentesca. L’annessione al Regno d’Italia – in maniera ampiamente annunciata – ha costretto la bussola dell’economia isontina a una rotazione forzata di 90 gradi e ha determinato la nascita di una cosa che fino a quel momento non c’era: il confine orientale.Messa in questi termini, la storia del Novecento goriziano diventa nient’altro che la storia della gestione di questa nuova inedita posizione geoeconomica. Non si può dire che l’impegno italico su questo fronte sia mancato (si veda alla voce fascismo), ma la macchina reggerà fino alla seconda guerra mondiale, fino a quando cioè Gorizia avrà almeno la possibilità di mantenere il suo assetto provinciale originario, con un ampio entroterra che ancora si inoltra nella valle del Vipacco e risale quella dell’Isonzo.Il giocattolo invece, come è noto, si romperà definitivamente quando la penalizzazione impressa al territorio dalla seconda guerra mondiale e la costruzione di una cortina di ferro alle spalle della città porteranno a compimento il disegno dell’ultima Thule, costringendo Gorizia, propaggine estrema, a non essere più un soggetto economico, ma a diventare esclusivamente una questione politica, da presidiare e proteggere sotto l’effetto della droga economica assistenzialistica.Non mi dilungo, perché il tema è noto: zona franca, ecc. Lo sballo però è durato sessant’anni, forse il più lungo dopoguerra della storia d’Europa e i goriziani, non senza colpe, l’hanno vissuto come se non dovesse mai finire.Ora che la crisi iniziata nel 2008 sta riportando tutti alla realtà, cominciano ad affiorare le macerie di una città che per decenni non si è dovuta preoccupare di intraprendere e di produrre valore economico proprio e che nel frattempo demograficamente è regredita a quella di inizio Novecento. Guarda caso proprio a quella città a cui, attraverso la prima guerra mondiale, era stata promessa la redenzione. Un segnale che forse è da lì che si deve ricominciare.