Fra rispetto della sovranità ed ingerenza umanitaria

Antropologia del donoLa pace è frutto della consapevolezza che la promessa iscritta nella natura del mondo e dell’uomo è in qualche modo realizzabile anche se non può mai essere pienamente compiuta; ed è quindi possibile vivere superando inquietudine, diffidenza e paura, atteggiamenti legati alla precarietà della condizione umana.La pace è un cammino di reciproco e integrale riconoscimento fondato sulla condivisione solidale delle persone e dei popoli. Si basa sulla consapevolezza del ’debito originario’ che costituisce ogni persona e che la impegna a vivere nella logica corrispondente del dono di sé all’altro e della responsabilità nei confronti del mondo, delle sue risorse naturali, e degli altri esseri viventi di cui è responsabile2.A livello sociale il reciproco riconoscimento, condizione di realizzazione del bene comune, è mediato dalle forme culturali e istituzionali delle società. Anche a questo livello, e non solo a quello interpersonale, la logica del dono deve essere necessariamente riconosciuta, dato il debito che ogni gruppo sociale ha nei confronti di ogni altro e di tutti gli altri. Così, riconoscere che l’unico modo di realizzare le relazioni umane si fonda ultimamente sull’offrire ciò che si ha ricevuto è molto più che considerare l’altro sulla base di una supposta uguaglianza o di una fittizia parità di condizioni3. Nessuna persona o gruppo sociale è uguale o vive nelle stesse condizioni di un altro, ma tutti si trovano accomunati dalla responsabilità di promuovere la vita propria promuovendo quella del prossimo. Questa non è ingerenza nei confronti dell’altro, e nemmeno un intervento necessitato da una contingenza o bisogno, ma la condizione necessaria della propria ed altrui umanità. Dunque della propria ed altrui socialità.Si può inoltre dire che ciò che accomuna gli uomini è il debito originario che li costituisce, un debito che trascende anche le mediazioni naturali e culturali di cui è comunque il frutto, un debito che il singolo o una società non può estinguere, può solo reiterare offrendo ad altri la possibilità di nascere a loro volta come persone e come società. Il dono, come offerta di sé all’altro è l’unica legge che permette la vita e la sua realizzazione. La risposta al debito originario insolubile è il credito all’altro. Ciò che io sono e ho ricevuto non lo posso restituire, lo posso però offrire e così facendo non solo promuovo la vita dell’altro ma anche la mia. La reciprocità e la corrispondenza che nascono dalla logica del dono non si risolvono nell’utilità reciproca – forma comunque necessaria del bene – ma costantemente la trascendono in forme più ampie di solidarietà.Che poi la logica del riconoscimento e quindi della reciprocità possa compiersi ultimamente solo in Colui (Gesù) che nel farsi dono all’altro (l’umanità) lo abilita ad una piena corrispondenza, è verità cristiana che indica all’uomo la modalità del suo effettivo inveramento.

Pace e legittima difesaLa pace è l’insieme di tutti i beni umani. L’enciclica Pacem in terris lo esprime affermando che è l’unione di verità, giustizia, amore e libertà. L’unione è data dalla logica del dono. La pace non può dunque pensarsi solo come il frutto di strategie di contenimento delle diverse forme di violenza sociale in un popolo o fra i popoli4. Essa richiede il rispetto e la promozione di tutti i diritti umani. Una richiesta esigente, mai conclusa, possibile se non viene negata la logica radicale del ’debito/dono’ sopra accennata. Come a dire che previa ad ogni rivendicazione di un diritto c’è un dovere, innanzitutto quello di riconoscere all’altro il diritto che si rivendica per sé. Più estensivamente si tratta del fatto che la modalità per rispettare e promuovere la propria dignità passa attraverso il rispetto e la promozione della dignità dell’altro. Sulla base di una tale antropologia si deve escludere che alla violenza si possa porre rimedio con un’altra forma di violenza.Nel contesto delle controversie tra le comunità politiche l’enciclica afferma che non possono essere risolte “con il ricorso alla forza, con la frode o con l’inganno, ma, come si addice agli esseri umani, con la reciproca comprensione, attraverso valutazioni serenamente obiettive e la equa composizione”5.Garanti di questa modalità di soluzione dei conflitti dovrebbero essere “i poteri pubblici in grado di operare in modo efficiente su un piano mondiale”, primo fra tutti l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che per questo ha bisogno di strutture e mezzi adeguati alla “vastità e nobiltà dei suoi compiti”6.Il Concilio nella costituzione Gaudium et spes, continua ad auspicare l’istituzione di un potere pubblico internazionale a cui ricorrere in caso di “pericolo di guerra”. In assenza di esso riconosce ai governi il diritto di difendere la vita e i beni dei propri cittadini evitando di considerare la “legittima difesa” una forma di “guerra giusta”7 o di “guerra difensiva”8. Negando la liceità di qualunque forma di offesa nei confronti di altre nazioni esclude, di fatto, anche ogni intervento armato “preventivo” inteso come “difensivo” e ciò a partire dalla natura indiscriminatamente distruttiva del potenziale bellico necessario allo scopo9. Anche la corsa agli armamenti, invece che efficace deterrenza è considerata una “gravissima piaga dell’umanità” che danneggia “in modo intollerabile i poveri”. Il Concilio ribadisce che nei contesti di violenza fra nazioni e all’interno di esse, la promozione e la difesa dei diritti delle persone e dei popoli richiede un’autorità sopranazionale che per la sua autorevolezza abbia la possibilità di intervenire efficacemente10.Quest’ultima indicazione che il Concilio riprende dall’insegnamento dei papi del novecento sulla necessità di garantire un ordine mondiale di giustizia e di pace e che approfondisce nel nuovo contesto della “guerra fredda” e dello sviluppo delle armi moderne, risulta del tutto attuale ed è costantemente ribadita dal magistero postconciliare. Se infatti è vero che le armi sempre più potenti rendono difficile garantire la proporzionalità della reazione all’offesa, è anche vero che lo stesso progresso tecnicoscientifico, ma sopratutto il diritto internazionale, hanno messo a disposizione dei governi tanti e tali mezzi legislativi e di comunicazione sociale, che è possibile trovare vie di dialogo, di prevenzione o di riconciliazione. Se questo non succede è perché si vuole che non succeda: è ovvio che motivazioni di carattere politico ed economico spesso sostituiscono la volontà di trovare accordi pacifici alle controversie. Non è affatto necessario che la difesa dei diritti debba avvenire con l’uso delle armi. Se si arriva a questo punto è perché non si è voluto operare altrimenti.“Di qui la estrema, urgente necessità di una rinnovata educazione degli animi e di un nuovo orientamento nell’opinione pubblica. Coloro che si dedicano a un’opera di educazione, specie della gioventù, e coloro che contribuiscono alla formazione della pubblica opinione, considerino loro dovere gravissimo inculcare negli animi di tutti sentimenti nuovi, ispiratori di pace. E ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, aprendo gli occhi sul mondo intero e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino”11.

Terrorismo e legittima difesaAnche di fronte alla terribile sfida del terrorismo che si presenta “come un nuovo metodo di guerra” l’educazione rimane il fine principale per la convivenza pacifica. Essa abilita alla costruzione dell’unità fra i valori richiamati dalla Populorum progressio. L’educazione è legata alla capacità di apertura del cuore dell’uomo “alla verità tutta intera”, al bene comune piuttosto che all’interesse di una parte. Una guerra non più “convenzionale” come quella terroristica non può essere combattuta principalmente con interventi militari armati. L’azione terroristica ha di mira il sovvertimento di un ordine istituzionalizzato, sia esso politico, economico, sociale, etnico o religioso e travalica ogni confine nazionale coinvolgendo direttamente la popolazione civile. Va evidenziato che alla sua origine non ci sono solo ragioni di ingiustizia sociale. Per coltivare il terrorismo è necessaria una cultura della violenza. Quasi sempre terroristi si diventa attraverso un vero e proprio processo di iniziazione, un programma di addestramento non solo militare ma ideologico, volto ad una ricomprensione riduttiva e strumentale dei valori. Si coltiva l’illusione che il valore per cui si crede di lottare si possa ottenere con prassi che lo negano. I giovani arruolati sono le prime vittime del terrorismo cui seguono le popolazioni civili inerme. Dietro a questo fenomeno destabilizzate c’è sempre un intreccio di interessi economico-politici spesso non dichiarati.Nei confronti del terrorismo, come nei confronti di ogni forma organizzata di violenza lo Stato deve difendere i propri cittadini. Giovanni Paolo II nel Messaggio per la XXXV giornata mondiale della pace, rifacendosi all’insegnamento del Concilio richiama i criteri di una legittima difesa dello Stato contro tali attacchi:“[Il diritto alla difesa] deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L’identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi. La collaborazione internazionale nella lotta contro l’attività terroristica deve comportare anche un particolare impegno sul piano politico, diplomatico ed economico per risolvere con coraggio e determinazione le eventuali situazioni di oppressione e di emarginazione che fossero all’origine dei disegni terroristici. Il reclutamento dei terroristi, infatti, è più facile nei contesti sociali in cui i diritti vengono conculcati e le ingiustizie troppo a lungo tollerate” (n. 5).

Ingerenza umanitariaSe quello educativo rimane il compito primario e mai concluso per l’edificazione di una convivenza pacifica, di fronte all’urgenza di difendere i valori fondamentali della vita occorre una risposta tempestiva. Giovanni Paolo II nel dicembre del 1992, ai partecipanti della XXVII Conferenza della FAO sulla fame nel mondo fa riferimento per la prima volta al dovere dell’ingerenza umanitaria:“All’interno della comunità internazionale sta quindi maturando l’idea che l’azione umanitaria, lontano dall’essere un diritto dei più forti, debba essere ispirata dalla convinzione che l’intervento, o persino l’ingerenza quando le situazioni obiettive lo richiedono, è una risposta all’obbligo morale di soccorrere individui, popoli o gruppi etnici il cui fondamentale diritto alla nutrizione è stato negato al punto di minacciare la loro esistenza”12.Poche settimane dopo, nel discorso di inizio anno (1993) al Corpo diplomatico riprende e approfondisce il principio dell’ingerenza umanitaria:“Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza”. Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono rivelati inefficaci. I principi della sovranità degli Stati e della non ingerenza nei loro affari interni – che conservano tutto il loro valore – non devono tuttavia costituire un paravento dietro al quale si possa torturare e assassinare”13.A distanza di qualche anno, sempre in occasione del discorso ai membri del corpo diplomatico, Giovanni Paolo II afferma che alla comunità internazionale non mancano strumenti giuridici per intervenire in caso di gravi violazioni dei diritti dell’uomo. Le convenzioni scritte e le assemblee internazionali “sono persino in eccesso!”. Quel che manca è invece il riconoscimento della “legge morale e il coraggio di riferirsi ad essa. […] È dunque urgente organizzare la pace […] basandosi su valori morali che sono agli antipodi della legge dei più forti, dei più ricchi o dei più grandi che impongono i loro modelli culturali, i loro diktat economici e le loro tendenze ideologiche. I tentativi per organizzare una giustizia penale internazionale sono, in questo senso, un reale progresso della coscienza morale delle Nazioni. Il diritto internazionale è stato per molto tempo un diritto della guerra e della pace. Credo che esso sia sempre più chiamato a diventare esclusivamente un diritto della pace concepito in funzione della giustizia e della solidarietà. In questo contesto la morale è chiamata a fecondare il diritto; essa può esercitare altresì una funzione di anticipo sul diritto, nella misura in cui gli indica la direzione del giusto e del bene”14.È evidente che là dove i governanti non abbiano più il consenso popolare o non siano in grado di difendere la popolazione civile si rende necessario l’intervento di un organismo internazionale legittimato volto alla salvaguardia dei beni di quella popolazione15. Solo un organismo riconosciuto super partes può garantire all’intervento umanitario l’imparzialità, la correttezza, l’assenza di rivendicazioni e di interessi politico-economici. E si deve trattare di interventi volti a rispondere alle esigenze fondamentali della popolazione civile, condotti da organizzazioni non governative sotto l’egida del diritto internazionale e con le necessarie forze di polizia (militare e non) con funzione di peace-keeping.L’ONU è il principale di questi organismi, ma non l’unico. Si fonda sul riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole16. Nasce con il compito di aiutare la pacifica convivenza dei popoli e per raggiungere questo obiettivo ha abolito il ricorso alla guerra come mezzo di tutela degli interessi dello Stato e come sanzione per l’osservanza delle regole del diritto internazionale. Gli Stati che hanno sottoscritto la Carta delle Nazioni Unite di fatto riconoscono che c’è un’autorità ad essi superiore, che la loro non può essere una sovranità assoluta. Ci sono dei beni umani così fondamentali che la loro custodia riguarda l’umanità intera e oltrepassano l’autorità di uno Stato. L’adesione all’ONU implica inoltre la consapevolezza per uno Stato di non essere una società perfetta ed autosufficiente nella promozione e difesa del bene della propria popolazione. È vero che l’ONU impedisce a qualunque Stato o Organizzazione internazionale di intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di un altro Stato17, ma riconosce altresì che ci sono beni che travalicano i confini dello stesso e che quindi non possono essere considerati solamente ’interni’18.Il diritto/dovere di ingerenza umanitaria trova qui il suo fondamento ma chiede condizioni di uguaglianza e reciprocità fra gli Stati. Quanto questo risulti difficile non de jure ma de facto rimanda alla considerazione di natura antropologica iniziale nella quale si rilevava che la medesima dignità o valore fra le persone e gli Stati non comporta la loro uguale condizione. Gli Stati oltre ad avere ’nature’ e ’culture’ dalle ricchezze e dai limiti diversi hanno anche capacità di condizionamento interno agli altri Stati notevolmente diverse. Verrebbe da dire che l’”ingerenza” è la normale relazione fra gli Stati, come lo è per le persone. Si rende così necessaria nell’ordinaria esperienza delle relazioni, una costante e decisa promozione della cultura della convivenza, del rispetto e della solidarietà affinché i reciproci condizionamenti risultino una crescita equa per tutti. L’ingerenza non è solamente quella umanitaria proclamata dal diritto, essa è nella natura delle relazioni, appartiene già da sempre alle forme che caratterizzano la vita economica e culturale di una nazione. Quella culturale è forse la realtà che maggiormente penetra e condiziona le sovranità altrui. Basti pensare alla pervasività di certi stili di vita dell’Occidente, alle sue forme di utilizzo delle risorse naturali nel mondo e alle reazioni fondamentaliste che hanno contribuito a suscitare. Tutto ciò che penetra nella vita di un popolo, trasformando costumi e stili di vita se contribuisce a creare separazioni e disuguaglianze, prima o poi produce chiusura, arroccamento e alla fine reazione violenta. Le complesse forme di integrazione autentica fra culture e popoli richiedono il rispetto dei tempi (che le relazioni economiche, ad esempio, non conoscono) e la valorizzazione delle differenze (contro le tendenze omologanti).Quando si tratta dunque di intervenire, da parte della Comunità internazionale, in forza del diritto, all’interno del territorio di uno Stato, con giusta causa, retta intenzione e mezzi adeguati ci si deve ricordare che la Comunità internazionale è già in qualche modo anch’essa corresponsabile della situazione per la quale si richiede l’intervento. Responsabile nei confronti delle politiche economico-culturali che fino ad allora aveva intrapreso con quello Stato e responsabile di tutti gli atti omissivi di carattere preventivo che avrebbe dovuto compiere. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra…”.Con le popolazioni già provate dall’ingiustizia non si può intervenire violentemente. Un intervento realmente umanitario non può essere un’azione eminentemente ’militare’ (intendo qui armata) ma politica e diplomatica, anche se effettuata con forze militari o di polizia. Di fronte ad una crisi che per esempio può sfociare in atti di genocidio la Comunità internazionale ha il dovere di difendere efficacemente la popolazione perché una così grave violazione della persona è un attentato all’intera famiglia umana19. Ma proprio in questi casi di drammatica violenza ci si deve chiedere se la Comunità internazionale abbia adoperato tutti gli strumenti del diritto a sua disposizione per prevenire ed impedire un simile dramma. La storia ci insegna che spesso la pianificazione ed esecuzione di queste azioni hanno bisogno del sostegno e dell’aiuto di organizzazioni che provengono da altri paesi che nel peggiore dei casi operano con il tacito consenso dei loro governi.Le istituzioni internazionali e l’ONU in particolare hanno il dovere di precisare, di volta in volta, la giusta causa di un intervento umanitario e in ragione di essa stabilire i mezzi adeguati. Prima di essere repressivi dovrebbero essere preventivi ed eventualmente punitivi. Non solo post factum, come l’istituzione dei tribunali internazionali per i crimini contro i diritti dell’uomo ma anche ante factum facendo però attenzione ad evitare le forme indiscriminate di punizione che colpiscono quasi esclusivamente la popolazione civile, come è accaduto per gran parte degli embarghi. Va ricordato che c’è una lunga storia di sopraffazioni che precede sempre l’atto cruento, determinata da forme radicate di ingiustizia. Sarebbe necessaria una maggiore apertura e collaborazione fra gli stati affinché tali forme vengano opportunamente sradicate. Come si è detto, nessuno Stato o Nazione è in grado di risolvere le proprie ingiustizie da solo, ed è necessario che nel consesso internazionale questo venga riconosciuto da tutti gli Stati. Sono però le condizioni di uguaglianza e di reciprocità fra le Nazioni che permettono di realizzare il diritto internazionale dei diritti umani.

Note

1 Cfr. P. CARLOTTI, “Un chiarimento decisivo”. DSC e teologia morale, in P. CARLOTTI, M. TOSO (edd.), Un umanesimo degno dell’amore. Il “Compendio della Dottrina sociale della Chiesa”, Biblioteca di Scienze Religiose 191, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 2005, 157-180.2 Sull’antropologia del dono e l’alterità che lo costituisce la bibliografia è enorme. Mi limito a segnalare l’ampio e documentato studio di S. ZANARDO, Il legame del dono, Filosofia morale 29, Vita & Pensiero, Milano 2007 e il puntuale volumetto di PAUL GILBERT, SILVANO PETROSINO, Il dono. Un’interpretazione filosofica, opuscola/116, il melangolo, Genova 2001.3 Sul superamento di una visione puramente procedurale e contrattualistica della giustizia basata su di un’astratta antropologia dell’uguaglianza, cfr. P. RICOEUR, Il giusto, [tr. it. D. Iannotta] Società Editrice Internazionale, Torino 1998.4 La pace non è solo “assenza di guerra” o di violenza, e non può fondarsi sulla logica dell’”equilibrio delle forze”. Anche la “simultanea e reciproca” riduzione degli armamenti che dovrebbe auspicabilmente portare al “disarmo integrato da controlli efficaci” è condizione necessaria ma non sufficiente per la costruzione della pace. Occorre infatti “disarmare i cuori” e promuovere la “vicendevole fiducia”. Cfr. GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, (PT) EV 2/34.39.575 PT EV 2/34.6 PT EV 2/46-47.7 “Stabilito […] che non esiste una guerra giusta, ma il puro e semplice diritto alla legittima difesa, ne segue immediatamente la condanna assoluta della guerra cosiddetta ’totale’. […] qui il Concilio si pronuncia in forma solenne e straordinaria” E. CHIAVACCI, La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo ’Gaudium et spes’, Studium, Roma 1967, 447-448; cfr. ID., Teologia morale. 3/2 Morale della vita economica, politica e della comunicazione, Cittadella Editrice, Assisi 1990, 83.8 “E fintantoché esisterà il pericolo di guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni”. Gaudium et spes, (GS) 79.9 “Il progresso delle armi scientifiche ha enormemente accresciuto l’orrore e l’atrocità della guerra. Le azioni militari, infatti, se condotte con questi mezzi, possono produrre distruzioni immani e indiscriminate, che superano pertanto di gran lunga i limiti di una legittima difesa. […] Tutte queste cose ci obbligano a considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova. […] Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione”. GS 80.10 “È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l’accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra. Questo naturalmente esige che venga istituita un’autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti”. GS 82. Cfr. E. CHIAVACCI, Teologia morale. 3/2 Morale della vita economica, politica e della comunicazione = Teologia/Strumenti (Assisi, Cittadella 1990) 83: “E raramente è stato osservato che qui il Concilio pronuncia una vera e propria sentenza giudiziale”.11 GS, 82.12 http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1996/documents/hf_jp-ii_spe_11111993_xxvii-session-fao-conference_ it.html13 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, L’Osservatore Romano 17.01.1993.14 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, L’Osservatore Romano 13-14.1.1997 p.7.15 La difficoltà di un consolidamento e di una crescita dell’ordine pubblico internazionale è dato proprio dalla crisi della forma Stato. Negli oltre cento conflitti che hanno insanguinato il pianeta dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, solo due sono stati generati da uno scontro armato fra Stati sovrani. Tutti gli altri conflitti sono derivati da frammentazioni, secessioni o comunque conflitti civili all’interno di sistemi statali. In moltissimi casi le parti interessate al conflitto hanno richiesto l’intervento dell’ONU e di altri organismi internazionali per mettere in piedi dei meccanismi o delle procedure volte a creare le condizioni per la risoluzione pacifica del conflitto, ed alla ricostruzione della convivenza civile e delle strutture amministrative e di governo. Questo ha comportato l’apertura di un nuovo capitolo nelle tradizionali operazioni di peacekeeping da parte delle Nazioni Unite. In questo nuovo contesto storico gli interventi diventano molto più penetranti e complessi.16  Cfr. Preambolo Carta delle Nazioni Unite, (CNU) S. Francisco (USA) 1945.17 Cfr. CNU, art 2, p. 1.18 Cfr. CNU, Cap. 7, artt. 39-51. Questi beni hanno avuto una evoluzione conosciuta come ’diritto internazionale dei diritti umani’ formato da veri e propri Trattati e Convenzioni vincolanti per i governi (che sono la gran parte del mondo) che li hanno sottoscritti. Sono, ad es. la Convenzione contro il genocidio (1948), i Patti del 1966 sui diritti civili e politici, e sui diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (1979), la Convenzione contro la Tortura (1984), la Convenzione sui diritti del fanciullo (1989), le Convenzioni sul diritto bellico umanitario (le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i due Protocolli aggiuntivi del 1977).19 Cfr. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 1948.