Una vera lezione d’amore
5 Ottobre 2018
Suor Romana Bordignon delle Ancelle di Gesù Bambino vive a Gorizia da molti anni, ma la sua origine è veneta. Il suo paese di provenienza è Castello di Godego, cittadina che, insieme a molte altre del trevigiano, fu drammatico teatro dei rastrellamenti nazisti nel 1945.Suor Romana all’epoca era solo una bimba, ma conserva vividi ricordi di quei momenti. Avvenimenti tragici, che le insegnarono però tanto, grazie ai suoi genitori che, nonostante la drammaticità dei momenti, seppero infondere in lei e nei suoi fratelli delle grandi lezioni d’amore.
Suor Romana, iniziamo proprio dalla storia. Cosa accadde in quel 1945?A quel tempo eravamo già nati in 5 degli 8 fratelli che compongono la mia famiglia, io avevo 9 anni. La guerra era alle sue fasi finali e i soldati Nazisti stavano setacciando le città e i paesi in cerca di partigiani.Ricordo che in paese, Castello di Godego, come in altri, si andava diffondendo la voce che i tedeschi stavano passando di casa in casa e portavano via tutti gli uomini che trovavano e che si stavano salvando solo vecchi e ammalati. Mio padre allora aveva una quarantina d’anni e non era in guerra, pertanto se lo avessero trovato, lo avrebbero certamente portato via. Decise allora di scappare e nascondersi, ma a noi bambini non venne detto dove. Mamma ci disse che, se interpellati, avremmo dovuto dire che si era recato a lavorare nei campi, indicandogli un punto distante dalla casa.Noi figli con la mamma e una zia anziana rimanemmo quindi a casa; in breve tempo venimmo a sapere che i Nazisti stavano portando via anche uomini anziani e tiravano addirittura fuori dal letto gli ammalati, per verificare che non stessero fingendo, trascinandoli via. Ricordo addirittura che sparavano attraverso i campi di granoturco, per vedere se qualcuno nascosto tra le alte piante di mais, saltasse fuori. Li vidi con i miei occhi sparare nei campi – abitavamo molto fuori dal centro, in piena campagna – ne rimasi molto impressionata.Vidi poi arrivare verso la nostra casa un gruppo composto da molte persone locali, “scortate” da una decina di soldati Nazisti, duri in volto, armati. Alcuni di loro entrarono in casa, e ricordo che ebbi molta paura. Si spinsero nel granaio, dove avevamo un po’ di salami e formaggi, e iniziarono a mangiarseli. Come bambina mi arrabbiai molto per quell’ingiustizia, perché stavano banchettando con le nostre scorte senza nemmeno chiedere per favore, ma avevo il divieto da parte di mamma di dire qualsiasi cosa, anche di fronte all’ingiustizia.Chiesero quindi a mia madre, con conferma poi da parte di noi bambini, dove fosse papà; rovistarono in tutta la casa e in camera dei miei genitori ribaltarono i materassi, per verificare che non ci fossero persone o armi nascoste. Io avevo tantissima paura che, in qualche modo con le loro mitragliatrici cariche, facessero scoppiare tutta la casa.Insistettero per sapere dove fosse papà e, non trovandolo, promisero di tornare. Uscirono e raggiunsero il gruppo di uomini che avevano già rastrellato, proseguendo nel loro cammino e uccidendoli poco dopo. Successivamente vidi tutti quei cadaveri su un carro abbandonato nelle campagne, circondato da tante persone che piangevano per i loro cari.Alla sera, passato il pericolo, papà rientrò a casa e ci stringemmo in un lungo abbraccio. Per la mia famiglia era fortunatamente andato tutto bene.
Lei aveva solo 9 anni, cosa ricorda della guerra ma soprattutto come è riuscita a far fronte a un episodio così duro e impressionante nella vita di un bambino?In casa la guerra non entrava: non se ne parlava e si cercava di condurre – soprattutto per la presenza di noi bambini – una vita “normale”. Fuori invece sì, la guerra si vedeva e se ne parlava. Per esempio ricordo che andando a scuola avevo sempre molta paura, perché gli aerei militari diretti a Treviso al campo d’aviazione passavano molto bassi e il timore che sganciassero qualche bomba era altissimo. Si andava a scuola in gruppo, anche 20 bambini, e quando sentivamo gli aerei correvamo a nasconderci sotto agli alberi, per non essere visti. Si sentiva poi parlare di bombardamenti avvenuti a Padova, Treviso, tutte località vicine: avevamo paura. A casa invece no, ci sentivamo protetti, era il nostro rifugio sicuro.Tra gli avvenimenti di guerra ricordo poi, con il calar del buio, il passaggio di “Pippo” – così lo si chiamava -, l’aereo che passava a controllare che non ci fossero incontri tra partigiani: se notava una luce dopo il coprifuoco, sganciava una bomba. I nostri genitori ci insegnarono a coprire le lampade a petrolio con una tendina, per impedire di far vedere all’esterno la luce. Questa era un po’ l’unica paura in casa, ma la presenza di mamma e papà, il fatto appunto di essere in un luogo conosciuto e sicuro, la rendeva più debole.Probabilmente è stato proprio questo fatto dell’essermi sentita in qualche modo sempre protetta che ha fatto sì che non rimanessi estremamente traumatizzata dagli eventi.
Com’è stato, anche negli anni successivi, affrontato con voi bambini l’evento da parte dei suoi genitori? Come ve ne hanno parlato?Lo hanno fatto trasmettendoci sempre grandi valori e insegnamenti d’amore e un’occasione si presentò proprio due giorni dopo il rastrellamento.I Nazisti erano ormai in fuga e bussò alla nostra porta proprio uno dei soldati che, nei giorni precedenti, era venuto a cercare il papà. Lo riconoscemmo e avvisammo nostro padre, ma lui aveva un grande cuore e alla vista di quest’uomo, impaurito anche lui, che con le mani giunte chiedeva dei vestiti per poter abbandonare la divisa e far ritorno in Germania da sua moglie e i suoi bambini, papà gli donò uno dei suoi abiti migliori. Mia madre non era molto convinta ma papà le rispose semplicemente “anche lui ha una famiglia e dei bambini che lo aspettano”. Mamma comprese e sciolse anche lei le ultime ritrosie.Quando successivamente chiesi a papà perché avesse voluto aiutare quell’uomo, lo stesso che soltanto due giorni prima lo avrebbe portato via da casa e ucciso, lo stesso che aveva spaventato a morte noi bambini, mio padre rispose che “quella è un’altra cosa: siamo in guerra e la guerra è questa; a volte è un mistero e purtroppo paga anche l’innocente. Quest’uomo aveva paura anche lui e per sopravvivere ha obbedito a degli ordini, era arrabbiato. Non possiamo giudicarlo, ma possiamo cercare di perdonare”.
Un grande insegnamento d’amore, soprattutto se pensiamo provenire da un uomo provato da anni di guerra che avevano messo in pericolo lui e la sua famiglia. Come ha fatto poi negli anni tesoro di questi insegnamenti?Queste “lezioni” sono rimaste sempre in me, così come nei miei fratelli. A volte, vedendo alcune situazioni di oggi, con tanta diffidenza e odio rispetto all’”altro” – anche da persone che frequentano assiduamente la Chiesa – rimango basita e faccio difficoltà a capire certi atteggiamenti. Io ho sempre coltivato questo sentimento di comprensione e perdono, che mi è stato infuso appunto dai miei genitori. Per esempio, quando sento parlare di questi immigrati come se fossero qui per “rubare il lavoro ai nostri ragazzi”, in realtà credo semplicemente che siano venuti in cerca di una vita un po’ più dignitosa per loro e la loro famiglia, come farebbero tutti in una situazione di povertà o di difficoltà. Fa male sentire certi discorsi di odio. È appunto un grande insegnamento che mi è stato dato e provo tanto dispiacere per tutto questo fronteggiarsi continuo. Non si sta dicendo di dare nulla di materiale o monetario, ma almeno accogliere con un saluto o un sorriso.Un’altra cosa che i genitori mi e ci hanno insegnato, è stato anche un forte senso di coesione famigliare, che continua ancora oggi: siamo molto uniti e periodicamente ci incontriamo tra fratelli, nipoti e pronipoti. La nostra famiglia, la nostra salute, il nostro “esserci”, sono un dono di Dio: cerchiamo di fortificare questo dono e di rendere grazie con gioia al Signore di questo. Questo è il messaggio che ci hanno lasciato.
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