“I migranti ci aiutano a rimodellare le nostre scale di priorità”
23 Gennaio 2019
“I giovani si attendono dalla Chiesa una testimonianza di santità ordinaria, non spettacolare, ma solida e vivace. Una Chiesa cioè che, insieme a loro, indirizza il proprio sguardo sul Signore Gesù, perché Gesù diventi compagno di viaggio sicuro e fedele di ogni esistenza”. Parte dai giovani, nei giorni in cui è in pieno svolgimento la GMG a Panama, l’intervista che il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di papa Francesco, ha voluto concedere in esclusiva a Mauro Ungaro, direttore del settimanale dell’Arcidiocesi di Gorizia, “Voce Isontina”.
Eminenza, nell’ottobre dell’anno scorso si è tenuto il Sinodo dei Vescovi dedicato in modo particolare ai giovani. Colpiscono le parole pronunciate da Papa Francesco durante la celebrazione finale in cui ha chiesto scusa ai giovani perché la Chiesa non ha saputo ascoltarli. Cosa può fare oggi la Chiesa per rimettersi in ascolto dei giovani, come può aiutarli (uso due dei termini su cui si è soffermato Papa Francesco nell’incontro dello scorso mese di agosto al Circo Massimo a Roma) a realizzare i loro “sogni”, superando le loro “paure”?
La Chiesa conta sui giovani, lo ha sempre fatto e continuerà a farlo. Basti pensare a quanti sono nella storia della Chiesa, dal suo inizio fino ai nostri giorni, i giovani e le giovani santi.
La domanda potrebbe essere però rovesciata, nel senso che è importante, prima di chiedere qualcosa ai giovani o avere aspettative verso di loro, domandarci che cosa i giovani si aspettino dalla Chiesa. E i giovani lo hanno detto in molti modi nel cammino di preparazione al Sinodo: si aspettano coerenza, trasparenza, onestà, autenticità.
In una parola, si attendono dalla Chiesa una testimonianza di santità ordinaria, non spettacolare, ma solida e vivace. Una Chiesa cioè che, insieme a loro, indirizza il proprio sguardo sul Signore Gesù, perché Gesù diventi compagno di viaggio sicuro e fedele di ogni esistenza. Solo se partiamo dalla nostra conversione spirituale, pastorale e missionaria possiamo chiedere qualcosa ai giovani. In fondo chiediamo quello che dobbiamo dare loro: entusiasmo, fiducia, collaborazione, creatività, autonomia e speranza. Camminando dietro a Cristo insieme ai giovani possiamo essere “la giovinezza del mondo”, come ci ricorda il Messaggio del Concilio Vaticano II ai giovani.
Sogni e paure fanno parte dell’esperienza umana, a volte addirittura il sogno si trasforma in un incubo, come ha affermato Papa Francesco durante la veglia di preghiera al Circo Massimo nell’agosto del 2018: “I sogni grandi hanno bisogno di Dio per non diventare miraggi o delirio di onnipotenza”. Dalla vicenda di Abramo in poi sogni migliori sono quelli che Dio ispira nella nostra vita e che creano alleanza tra le generazioni. Non a caso uno dei temi ricorrenti dell’attuale pontificato è la profezia di Gioele 3,1: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”. Ecco perché occorre ricucire e rafforzare i rapporti umani in tutte le direzioni. Solo insieme i sogni di Dio e degli uomini trovano realizzazione.
Incontrando lo scorso 7 luglio a Bari, i capi delle Chiese e delle comunità cristiane del Medio Oriente, Papa Francesco ha sollecitato un impegno concreto per la pace dei credenti in quell’area, citando le stesse parole di Caino (“Sono forse io il custode di mio fratello?”) usate il 13 settembre 2014, al sacrario di Redipuglia nella celebrazione a 100 anni dall’inizio della prima guerra mondiale. In un tempo come il nostro che sembra dominato dai populismi, quale ruolo possono svolgere le Chiese perché si passi (uso un’altra citazione da Papa Francesco a Redipuglia) “dall’ “a me che importa?”” al pianto di dolore per le vittime di tutte le guerre che “il cuore corrotto” pare avere perso per sempre?
Il quadro internazionale – e la situazione del Medio Oriente in particolare – non sono per nulla incoraggianti. Papa Francesco, con riuscita immagine, parla da tempo di una terza guerra mondiale a pezzi. A me sembra che siamo spettatori di un crescendo di conflittualità, a tutti i livelli. Ciò richiede l’impegno di tutti, per porre fine alla violenza innanzitutto. Infatti, guerra chiama guerra, violenza chiama violenza. Dialogo e negoziato sono gli strumenti per aprire la strada al rispetto e alla fiducia reciproci e avviare percorsi di riconciliazione. Di essi è tornato a parlare Papa Francesco nel discorso al Corpo Diplomatico il 7 gennaio scorso, sulla scorta dell’intervento di San Paolo VI all’ONU nel 1965, In esso ha definito anche il ruolo della Chiesa e, in essa, della Santa Sede: essere un ascoltatore attento e sensibile alle problematiche dell’umanità, con il sincero e umile desiderio di porsi al servizio del bene di ogni essere umano.
Per tornare all’incontro di Bari, con i vari Patriarchi e leader religiosi del Medio Oriente, il Santo Padre ha fortemente denunciato la piaga della guerra. Egli ha ribadito che non le tregue garantite da muri e prove di forza porteranno la pace, ma la volontà reale di ascolto e dialogo. Anzi, poiché la guerra è figlia della povertà, essa si sconfigge anzitutto sradicando la miseria, solo avendo cura che a nessuno manchino il pane e il lavoro, la dignità. Ma affinché ciò sia possibile è essenziale che chi detiene il potere si ponga finalmente e decisamente al vero servizio della pace e non dei propri interessi. Si può fare qui utile riferimento ai contenuti del Messaggio della LII^ Giornata Mondiale della Pace, celebrata all’inizio di quest’anno, con il titolo: “La buona politica è a servizio della pace”.
Rimanendo all’incontro di luglio a Bari, papa Francesco ha ricordato che “quando si tendono le mani al cielo in preghiera e quando si tende le mani al fratello senza cercare il proprio interesse… arde e risplende lo Spirito di unità e di pace”. Nel momento in cui la presenza dei cristiani nelle terre della Bibbia è drammaticamente ridotta, le loro Chiese sono ancora in grado di giocare un ruolo per la costruzione della pace e la fine dei conflitti?
Sì, i cristiani hanno sempre giocato un ruolo di equilibrio e mediazione nelle società medio-orientali. Nonostante il loro numero stia diminuendo, essi possono ancora svolgere un compito significativo. Da rilevare in particolare quanto San Giovanni Paolo II ha detto sul Libano, definendone la vocazione come Paese “messaggio”: un messaggio di coesistenza, di convivenza, di convivialità, di rispetto, di collaborazione!
D’altra parte, la drammatica riduzione della presenza cristiana in Medio Oriente, a causa degli eventi bellici e della diffusione di ideologie islamiste radicali, preoccupa vivamente la Santa Sede, come dovrebbe preoccupare ogni persona che ha a cuore il futuro di quella regione e dell’intera umanità.
Con il mio recente viaggio in Iraq, durante i giorni natalizi, ho inteso manifestare la vicinanza e l’affetto del Santo Padre a quelle comunità così duramente provate. Sono stati momenti di fede, di comunione ecclesiale e di gioia indescrivibili, che porto nel cuore come un grande dono che il Signore ha voluto farmi!
La mia presenza ha voluto essere anche un incoraggiamento al ritorno nelle terre e nei villaggi di origine. È quanto sta avvenendo, almeno in parte, nella Piana di Ninive. Ma ciò potrà realisticamente realizzarsi se tutti quelli che hanno ruoli e responsabilità contribuiranno a creare le necessarie condizioni di sicurezza e di vita degna. I cristiani ad altro non aspirano che ad essere considerati cittadini a pieno titolo dei rispettivi Paesi e a contribuire al loro progresso spirituale e materiale.
Eminenza, l’anno scorso Lei ha visitato alcuni Stati dell’area balcanica (quali la Serbia ed il Montenegro) che stanno impegnandosi per “entrare” nell’Unione Europea. Quale apporto possono portare gli Stati Balcanici all’Unione Europea del futuro?
La Santa Sede guarda con privilegiata attenzione alla realtà globale dei Balcani occidentali e, in tale disposizione, ne segue anche il processo di integrazione nell’Unione Europea.
Penso che l’accoglienza dei Paesi dei Balcani occidentali nella grande famiglia europea possa rappresentare una grande opportunità di pace e di sviluppo per l’intera Regione e contribuire a chiudere il capitolo delle divisioni che l’hanno caratterizzata dagli anni Novanta. Alcuni Stati balcanici, al loro interno, hanno compiuto un significativo cammino verso una composizione, nell’armonia, delle differenze etniche, politiche, religiose, ecc. che li caratterizzano. Altri devono porsi più risolutamente su questa strada, per evitare di ripetere i tragici errori del passato. Io spero che, oltre ad attendersi dei benefici dalla loro integrazione nell’Unione Europea, gli Stati dell’area balcanica riescano ad offrire ad essa un contributo concreto per edificare quell’unità nella diversità che rappresenta il suo motto.
Il dibattito sull’integrazione dei Balcani nell’Unione Europea avviene nel momento in cui le divisioni fra gli Stati del Vecchio Continente paiono mettere in discussione l’esistenza stessa dell’Unione. Come fare per ridare slancio e vita a quell’idea di Europa unita che profeticamente vollero statisti quali Adenauer, De Gasperi, Schumann…?
Il processo di adesione dei Balcani occidentali avviene in un momento decisamente particolare della storia dell’Unione Europea, segnata dalla difficile trattativa in vista dell’uscita del Regno Unito e dalla tendenza di alcuni Paesi a instaurare una dialettica di contrapposizione con le istituzioni comunitarie, “smarcandosi” da quel modo di procedere consensuale che finora ha contraddistinto l’Unione.
Certamente tale modo di procedere asseconda la percezione dei cittadini di un’Europa lontana, spesso insensibile, eccessivamente invasiva, dinanzi alle esigenze dei singoli popoli. Papa Francesco ha più volte sottolineato che per ridare slancio all’Europa occorre riportare al suo centro la persona umana e il suo nesso vitale con la comunità alla quale appartiene.
Un’Europa troppo preoccupata di questioni economiche e finanziarie o che gestisce una questione importante come le migrazioni in termini esclusivamente numerici è destinata a trovarsi in affanno.
Adenauer, De Gasperi e Schuman erano persone che consideravano la politica come una forma di carità, potremmo dire “un’arte” del servizio per il bene comune. Uno dei problemi del nostro tempo è il “deficit” di politica al quale assistiamo – e qui ritorno al Messaggio dell’ultima Giornata Mondiale della Pace – che viene in qualche modo colmato da un eccesso di burocratizzazione che allontana i cittadini dalle istituzioni, o da un costante atteggiamento di recriminazione che non costruisce. Occorre dunque adoperarsi per formare persone dedite alla politica nel senso più alto della parola. Persone con una solida preparazione culturale, desiderose di favorire la promozione integrale dell’uomo e che abbiano autenticamente a cuore il servizio del bene comune.
Uno dei termini usati nei mesi scorsi dal Santo Padre è stato “indifferenza”. Papa Francesco ha più volte parlato della “globalizzazione dell’indifferenza” su un tema quale quello delle migrazioni. Lei stesso, intervenendo lo scorso marzo all’Assemblea plenaria della Commissione internazionale cattolica per le migrazioni, sottolineava l’importanza di impegnarsi per creare una visione positiva della migrazione. Come realizzare questo risultato nel momento in cui la nostra società pare procedere in senso opposto?
Per rapportarsi in modo adeguato alla questione delle migrazioni occorre rispettarne la complessità, rifiutarsi di credere che si possa comprendere questo fenomeno con analisi superficiali o immaginare che si possano trovare soluzioni appropriate applicando ricette fatte di pochi ingredienti e subito interamente disponibili.
Le migrazioni sono l’esito di squilibri presenti sia nelle società da cui partono i migranti, sia in quelle che sono chiamate ad accoglierli. Laddove c’è uno stato di guerra o di guerriglia endemico, laddove si patiscono situazioni di povertà estrema o dove vengono negati i più elementari diritti, è impensabile che non si concretizzino fenomeni migratori.
D’altro canto, l’Europa, per esempio, si trova a dover affrontare un pesante “inverno demografico”, che, per varie ragioni la affligge.
In Europa, a fronte di condizioni di vita comunque migliori e più stabili rispetto a quelle dei Paesi a cui prima ho fatto riferimento, si è fatta però strada una percezione pessimistica del futuro, che ha favorito un certo rovesciamento della scala delle priorità, per cui, si preferisce “investire” tempo, energie e risorse prioritariamente in cose di più immediata fruibilità, prima che investire sul futuro, sulla nuova vita che sboccia e che richiede amore, cure, dedizione e sacrificio.
È come se la paura si fosse fatta più forte della speranza, e non ci si impegnasse di conseguenza in modo sufficiente per i grandi viaggi della vita: una nuova famiglia stabile, un figlio, un servizio verso un Paese, contraddistinto dallo zelo, dal senso del dovere, dal coraggio e dalla responsabilità. L’orizzonte viene invece prioritariamente occupato dai piccoli viaggi: quelli che si possono compiere in aereo o al computer.
I migranti ci aiutano a rimodellare le nostre scale di priorità. Ci fanno incontrare stili di vita e culture differenti dalla nostra che ci interrogano e ci fanno percepire che si può essere ben più carenti di mezzi di quanto siamo noi e, tuttavia, mantenere la speranza nel futuro.
Tante volte invece – benché costi ammetterlo – nelle società più ricche di mezzi si tende a pensare, parlare e agire come se non ci fosse più spazio per la speranza.
I migranti perciò ci mettono dinanzi allo specchio. Siamo capaci di compassione e di solidarietà verso il prossimo in difficoltà? Siamo capaci di fidarci del Signore e di non pretendere di controllare tutto, prima di donarci al prossimo, alla società, a Cristo? Siamo capaci di ringraziare Dio per non essere noi nelle condizioni di dover emigrare, come invece hanno dovuto fare le generazioni passate?
Sicurezza dei cittadini e bisogno di chi fugge da situazioni di pericolo paiono essere inconciliabili: quali strade deve percorrere la Politica per permettere a queste due esigenze di procedere insieme?
La politica ha il non facile compito di individuare e porre in atto soluzioni equilibrate a questioni che, come ho accennato sopra, sono complesse. La dimensione quantitativa del fenomeno delle migrazioni è tale che nessun Stato può immaginare di fare da solo. C’è bisogno di intelligente collaborazione per la sicurezza di tutti, dei migranti che vengono accolti e degli Stati che accolgono. Non serve innescare la spirale della paura o sottovalutare l’entità dei problemi.
Occorre invece puntare sulla responsabilità di tutti, sulla necessità che tutti comprendano che isolarsi innalzando barriere invalicabili o accogliere senza avviare concertate ed efficaci politiche d’integrazione sono modi profondamente sbagliati di agire.
La politica ha l’onere e l’onore di governare i problemi senza agitare paure che diventano sorgente di odi e violenze e senza rinunciare a confrontarsi con tutte le implicanze del fenomeno migratorio.
Eminenza, un’ultima domanda. Durante la messa al Phoenix Park di Dublino in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie, papa Francesco ha voluto fosse elevata una richiesta di perdono per gli abusi sessuali che hanno visto il coinvolgimento o il silenzio di uomini e donne di Chiesa “affinchè mai più accadano queste cose e perché si faccia giustizia”. La posizione del Santo Padre a riguardo è sempre stata molto chiara nell’impegno a ricercare la verità. Eppure sembra che la voglia di “scandalo” di alcuni ambienti – anche all’interno della Chiesa – cerchi in tutti modi di ostacolare questo cammino. Come vive il Santo Padre questi momenti? Come aiutare i credenti a superare il disorientamento e lo sconcerto per tali situazioni?
Il fenomeno degli abusi non può non produrre amarezza e dolore. Chiama tutta la Chiesa ad una profonda riflessione per fare in modo che questa piaga sia debellata e che laddove si riscontrassero nuovi casi nessuno pensi di sottrarsi al primario dovere di proteggere le vittime.
Il Santo Padre ha messo in atto una serie di misure concrete volte a fare in modo che non vi sia spazio nella Chiesa per quegli abusi di potere e di coscienza, mediante i quali sono stati resi possibili, in un quadro di “voragine spirituale” anche gli abusi sessuali.
La prossima riunione dei Presidenti della Conferenze Episcopali a Roma alla fine di febbraio prossimo, rifletterà su questo impegno a creare un ambiente sicuro per i minori e le persone vulnerabili. Occorre accompagnare questa azione del Papa con la preghiera e, nel medesimo tempo, non lasciarsi prendere dallo scoramento.
La grande maggioranza dei sacerdoti, dei vescovi e degli operatori pastorali compiono con abnegazione il loro lavoro, non risparmiando fatiche e non sottraendosi ai sacrifici. Sarebbe grave se la presenza di un male, seppure orribile come la piaga degli abusi, ci facesse distogliere lo sguardo dalla quotidiana, silenziosa e costante testimonianza di carità e rettitudine che tantissimi uomini e donne di Chiesa offrono. È più che doveroso combattere il male con tutti i mezzi disponibili, a partire da un’attenzione del tutto speciale alla formazione del Clero, ma non possiamo dare l’impressione che esista solo il male, il patologico, come se esso pervadesse ogni cosa.
La serenità del Santo Padre nell’affrontare anche questa spinosa e dolorosa realtà – fonte di tanta amarezza in tutti noi – nasce da questa consapevolezza, nasce dal sapere che non prevarrà, e che lo Spirito Santo non cessa di assistere la sua Chiesa.
La sua serenità, nonostante le nuvole scure, nasce dal fatto che egli ha piena fiducia che, con l’impegno, la riflessione e le preghiere di tutti, e, soprattutto, con l’aiuto di Dio, anche questo triste capitolo avrà il suo giusto epilogo.
La sua serenità nasce dalla fede.
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