La Giornata della Memoria compie vent’anni

La legge venne proposta da due deputati, Furio Colombo dell’Ulivo e Athos de Luca dei Verdi, dopo un lungo e intenso dialogo con i rappresentanti di tutte le parti interessate.C’è da dire anche che la Francia e la Germania già ricordavano istituzionalmente gli effetti dell’abolizione di ogni tutela democratica, l’Italia già più di vent’anni fa sentiva anche il bisogno di istituzionalizzare la memoria di tutti i caduti nei campi di Hitler, ciò significa non solo gli ebrei, ma anche gli zingari, i politici, gli IMI, e cioè gli internati militari italiani che non avevano aderito alla Repubblica di Salò, gli handicappati e anche semplicemente tutti coloro che non si erano sottomessi alla dittatura, erano stati deportati e non erano più tornati.La nostra zona è stata sconvolta brutalmente dalla violenza dittatoriale.Nella mia memoria storica personale non c’è solo Gaddo Morpurgo, figlio dell’ultimo presidente della comunità ebraica di Gorizia, fucilato a Forlì il 6 settembre del 1944 per il fatto di essere ebreo, vicino di casa e compagno di giochi e di scuola di mio zio Giordano, ferito mortalmente in strada pochi giorni dopo da una banda di facinorosi all’altezza di Manzano. Osservando la lapide commemorativa presente nella sinagoga di Gorizia mio padre si è sempre chiesto come mai due persone buone, che non stavano facendo violenza a nessuno, fossero state oggetto di una disumanità così brutale e totale.Nella mia memoria storica c’è anche la mamma di una mia zia, tutt’ora vivente, che è stata portata via davanti ai suoi figlioletti perché aiutava i partigiani e non è più tornata.Ma c’è anche un cugino di mia madre, un IMI che non si è mai vantato della sua scelta che lo ha portato a lavorare in un’importante fabbrica del Reich a Augsburg. Ricordo che all’epoca la Germania era già in gravi difficoltà e quindi aveva enorme bisogno di manodopera a costo minimo, infatti le razioni degli IMI erano calcolate per una sopravvivenza media di circa tre mesi. Pietro Marega, cugino di mia madre, sempre è stato riconoscente al tedesco che gli ha salvato la vita, lo ha portato a casa sua, fingendo di aver bisogno di un giardiniere, ha condiviso con lui il cibo che aveva e lo ha fatto riposare. Nel 1979, giunta notizia della morte di Karl Führer, Pietro Marega non ha esitato un attimo a prendere il treno della notte per Monaco, in modo tale da raggiungere Augsburg in tempo per il funerale.Ormai scomparsi quasi tutti i protagonisti coinvolti direttamente nella brutalità della dittatura nazi-fascista alla Giornata della Memoria spetta un compito molto arduo, principalmente quello di evitare di cadere in una vuota ritualità che soddisfa i sensi del momento presente.Ci si dovrebbe chiedere invece quali sono state le cause che hanno portato all’abolizione di ogni tutela democratica e allo sdoganamento di una violenza disumana senza precedenti.E ci si dovrebbe interrogare sul proprio grado di umanità.

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Pietre d’inciampo per ridare un nome ad un numero

Partecipate e commoventi cerimonie a Fogliano Redipuglia, Ronchi e Doberdò

di Ivan Bianchi

Le Stolpersteine tornano in Provincia di Gorizia per continuare nel percorso iniziato un anno fa dall’Aned di Ronchi dei Legionari assieme all’artista tedesco Gunter Demig che, dall’inizio del suo lavoro ovvero nel 1992, ha posizionato in totale ben oltre 71mila pietre. Così anche i deportati del Goriziano cominciano ad avere una propria ’pietra d’inciampo’, per ridare dignità e personalità a coloro che dovevano, secondo la logica nazista, diventare unicamente un numero. Da Fogliano Redipuglia a Ronchi dei Legionari fino a Doberdò del Lago, tredici sono le pietre d’inciampo che avrebbero dovuto essere posizionate durante le cerimonie ma un problema con la spedizione ne ha ritardato l’arrivo e ha costretto l’organizzazione a procedere alle cerimonie senza il posizionamento vero e proprio. Unica località in cui le pietre sono ’arrivate’ in tempo è stata Doberdò del Lago. Ad essere ricordati sono stati Giuseppe Zanet, Antonio Franzi, Giuseppe Zamar, Giovanni Olivo, Armando Maturo, Angelo Ghergolet, Annamaria Magnassi, Eufemia Brumat, deportati da Ronchi dei Legionari il 24 maggio 1944, e Fiorenzo Visintin e Augusto Fontanin, arrestati sempre nel 1944 ma residenti a Fogliano Redipuglia. A Doberdò del Lago sono stati ricordati Alojz Jelen e Jožef Ferleti? e nella frazione di Bonetti Jožef Boneta. “È importantissimo tramandare la nostra storia ai giovani, specialmente raccontando cosa successe più di settanta anni fa”, sottolinea la presidente dell’Aned Ronchi dei Legionari, Ada Bait. “È un nodo che dovrebbe essere sciolto dalle scuole, specialmente sottolineando cosa hanno sofferto i nostri padri, i nostri nonni e soprattutto le nostre madri che hanno visto perire i propri figli nella tragica esperienza della guerra. L’Aned si è presa l’impegno di proseguire nei prossimi anni ricordando tutti coloro che sono deceduti nei campi di concentramento, perché ce ne sono molti, coinvolgendo anche i paesi limitrofi perché la nostra sezione di Ronchi dei Legionari, essendo l’ultima sezione rimasta in organico all’associazione in tutta la provincia di Gorizia”, conclude. Il termine inciampo, in ogni caso, è figurato. Si tratta di una piccola targa in ottone della dimensione di un sampietrino, ovvero 10 centimetri per 10, che viene posta di fronte alla casa in cui abitò la vittima del nazismo o dove fu arrestata e reca alcuni dati, il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita, il giorno della deportazione, il luogo di morte e, se conosciuta, la data del decesso. La targa si pone improvvisamente di fronte alla vista di coloro che camminano e che sono o incuriositi a leggere e ricordare la persona in questione, o, in un gesto più nobile, fermarsi e sostare un attimo per una preghiera. Il termine deriva direttamente dal Nuovo Testamento, più precisamente dalla Lettera ai Romani di San Paolo (9,33):  “ecco, io metto in Sion un sasso d’inciampo e una pietra di scandalo; ma chi crede in lui non sarà deluso”.Tra le numerose testimonianze raccontate agli studenti presenti quella di Gianni Visintin, figlio e nipote di due dei deportati ricordati con le pietre del 2020, ovvero quelli foglianini. “Tutta la mia famiglia aiutava la resistenza – ricorda Gianni – raccogliendo vestiario, cibo e armi che alla sera mio padre portava in un luogo convenuto sul carso con carri e cavalli di Ruggero Furlan detto Panzera, per coloro che combattevano in montagna. Un giorno, dopo l’8 settembre 1943, arrivarono i tedeschi a casa mia: cercavano mio nonno Augusto e mio zio Luigi. Quando arrivarono mio padre si stava radendo la barba: lui continuava a ripetere ’Mi son Visintin, no c’entro con i Fontanin’, aveva anche il tesserino di riconoscimento ma lo portarono via ugualmente con ancora il sapone sul viso. Avevo sette anni mentre mia sorella ne aveva tre e piangeva”.”Lo portarono in carcere al Coroneo di Trieste – prosegue Gianni. “Mia madre cercò in ogni modo di farlo rilasciare e andò anche dalla famiglia Cosolo che conosceva molto bene il comandante tedesco di zona (Raiher). Qualche giorno dopo io nonno venne preso dai fascisti in ospedale a Monfalcone, lo portarono a Sagrado e poi anche lui al Coroneo. Circa un mese dopo vennero caricati sul treno nei vagoni bestiame per essere portati in Germania. Quando il treno stava transitando a Redipuglia gridarono ’Semo de Foian!’. I ferrovieri, che collaboravano con i partigiani, fermarono il treno. Il ferroviere Otto Cechet venne a chiamare mia madre così andammo di corsa in bicicletta fino alla stazione. Vedemmo le loro mani fuori dai pertugi del vagone e mio padre gridava ’Tien conto i putei’. Mio nonno venne internato a Gusen, sottocampo di Mauthausen, mio padre a Dora Mittelbau. Entrambi vennero assassinati. Mia zia Egidia Fontanin venne arrestata successivamente e finì ad Auschwitz-Birkenau, ma riuscì a tornare a casa e raccontare le atrocità subite”.