“Io vi darò ristoro!”
4 Febbraio 2020
Un’esperienza che per i credenti nasce e si sostiene nel Vangelo: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro” (Mt. 11,28). Parole concrete, autentiche, reali rivolte ai tanti malati e feriti nella vita, ma anche a coloro che sono chiamati a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle bisognosi.Concentrare cuore e mente sulla Buona Notizia, Parola fatta storia, conferma l’uomo nel fatto di essere amato e salvato, porta senso a quello che è e che fa, dona forza per stare dentro la vita e affrontarla, per stare accanto. E permette di essere felici. Essere felice, per la persona malata, ma anche per chi la assiste – come scrive il Papa nel messaggio di questa XXVIII^ Giornata mondiale del malato- vuol dire innanzitutto che “gli interrogativi e le inquietudini presenti nella notte del corpo e dello spirito troveranno forza per essere attraversati”. “Io vi darò ristoro” afferma appassionato Gesù. Lui rinnova la dimensione della fede, del coraggio e fa riprendere fiato. È un continuo invito a seguirlo, a lavorare con Lui, a voler bene con e come Lui, a commuoversi con Lui su quelle folle stanche e sfinite, soprattutto sui malati sempre presenti. La Giornata allora é espressione di fede, promuove la speranza ma anche la responsabilità perché tutti operino per scardinare la cultura dello scarto, dell’indifferenza, dell’individualismo e della fretta che non permette l’incontro. L’incontro, potente medicina per dare qualità al nostro essere uomini, società. Sempre papa Francesco nell’enciclica Lumen Fidei scrive: “All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a una storia di sofferenza per aprire un varco di luce”(58). Ogni tipo di malattia, sia essa fisica, morale o spirituale, deve essere alleviata, consolata. E la parola è il primo strumento per comunicare consolazione.Un noto psichiatra e saggista di Novara, il dottor Eugenio Borgna, afferma che “le parole sono creature viventi, sono pozzi artesiani, non sono mai inerti e mute, comunicano sempre qualcosa, sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, cambiano di significato nella misura in cui cambiano i nostri stati d’animo… le parole una volta dette, non ci appartengono più, e hanno una grande importanza nell’aprire un cuore alla speranza, o nell’avviarlo alla disperazione”. Quindi attenzione a quello che si dice. Quando vogliamo consolare dovremmo essere capaci di dire parole che nascano dalla misericordia, che sappiano cioè accogliere , e fare proprie, le voci del dolore e dell’angoscia, della tristezza e della disperazione, delle inquietudini e dei trasalimenti dell’anima. Le parole che consolano sono quelle che si accompagnano a sguardi, a volti, a silenzi, a mani che si stringono, talvolta a carezze che dicono gentilezza e prossimità.Nell’opera di Tolstoj, La morte di Ivan Il’i? , si evidenzia uno dei gravi errori umani in cui talvolta è possibile cadere, ossia considerare il malato come oggetto di cura e non soggetto di cura. Il protagonista, un uomo di carriera, consigliere di Corte d’Appello a San Pietroburgo, si trova colpito da una malattia che lo porterà alla morte. Il medico, distaccato e professionale, aveva come unica preoccupazione quella di cogliere se il problema era rene mobile o intestino cieco per avviare alcune pratiche di cura. “Dalle parole del dottore, Ivan si creò la convinzione di essere molto ammalato. E capì che la cosa non importava un gran che al dottore e, in fondo, nemmeno agli altri. Ma lui stava male. La scoperta lo ferì dolorosamente, suscitandogli un sentimento di pena verso se stesso e di rabbia verso il dottore, indifferente a una questione tanto importante”. Nessuno deve essere privato e nessuno deve privare della consolazione. Così si attualizza Matteo 11,28 con responsabilità umana… tutto è più lieve. E questo dovrebbe essere il punto di partenza perché ogni riforma sanitaria sia buona e porti risultato nel territorio e nel tempo.
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