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Correva l’anno 2018 quando un grande manager, Sergio Marchionne, nell’incalzare il cambiamento di una delle più grandi fabbriche italiane, la Fiat, lesse un discorso da lui scritto il cui senso diceva “Oggi viviamo in un’epoca in cui si parla sempre e solo di diritti. Il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto […]
25 Settembre 2024
Correva l’anno 2018 quando un grande manager, Sergio Marchionne, nell’incalzare il cambiamento di una delle più grandi fabbriche italiane, la Fiat, lesse un discorso da lui scritto il cui senso diceva
“Oggi viviamo in un’epoca in cui si parla sempre e solo di diritti. Il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa; il diritto a urlare e a sfilare; il diritto a pretendere. Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati. Se però continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo. Perché questa “evoluzione della specie” crea una generazione molto più debole di quella precedente, senza il coraggio di lottare, ma con la speranza che qualcun altro faccia qualcosa. Una specie di attendismo che è perverso ed è involutivo.
Per questo credo che dobbiamo tornare a un sano senso del dovere, consapevoli che per avere bisogna anche dare.
Bisogna riscoprire il senso e la dignità dell’impegno, il valore del contributo che ognuno può dare al processo di costruzione, dell’oggi e soprattutto del domani”.
Lo ribattezzarono il suo “manifesto politico”, l’ultimo, data la sua prematura scomparsa.
Quelle parole non possono non risuonare oggi dopo le recenti importanti manifestazioni (“Il tempo delle donne” a Milano e “PordenoneLegge” a Pordenone) che hanno esplorato (anche) i diritti attuali nel mondo del lavoro.
Forse però, come Marchionne suggeriva, meriterebbe cambiare prospettiva cimentandosi non solo sulla voce “diritti” ma anche sui doveri.
Quelli che ha ogni persona (dal datore di lavoro al collega, dall’amico al fidanzato) e che dall’inferiorità economica e sociale dei soggetti più fragili, i giovani e le donne per esempio, ne trae vantaggio.
Sì perché una società più equa pretende il contributo attivo di tutti in qualunque posizione essi siano.
Non è una condizione terza che va pretesa, un dogma istituzionale, un vento alieno tendente al cambiamento culturale, ma un vivere comune, attuale, concreto e quotidiano a cui oguno deve contribuire.
Non attendismo dunque perché qualcuno faccia qualcosa ma compartecipazione generale.
E’ importante questo passaggio perché nelle dette manifestazioni sono stati numerosi gli interventi di illustri personaggi del mondo dei media, dello Stato e della cultura e moltissimi hanno puntato severamente il dito contro la sub condizione dei lavoratori dimenticandosi che nella loro posizione di potere (mediatico/istituzionale/culturale), oltre a lamentarsi, posseggono il potere di fare.
L’attendismo citato da Marchione appunto, l’attendersi che esista chi possa lamentarsi aspettandosi che altri facciano.
Una condizione molto comune dell’essere umano e del vivere italico ma che non porterà mai frutti fintantochè non scioglierà il nodo più grande: gli altri chi?
(foto Siciliani/Gennari – Sir)
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