Speranza – Avvento di Fraternità 2024
Alla “scoperta” della seconda parola chiave racchiusa nel percorso di Avvento di Fraternità 2024 “Nel Natale, la Pace e la Speranza” con mons. Bolčina, Vicario episcopale per i fedeli di lingua slovena Sono andato a cercare, come mia buona prassi, il vero significato e l’etimologia del termine “speranza”. Diverse sono le definizioni, ma ben […]
12 Dicembre 2024
Alla “scoperta” della seconda parola chiave racchiusa nel percorso di Avvento di Fraternità 2024 “Nel Natale, la Pace e la Speranza” con mons. Bolčina, Vicario episcopale per i fedeli di lingua slovena
Sono andato a cercare, come mia buona prassi, il vero significato e l’etimologia del termine “speranza”.
Diverse sono le definizioni, ma ben poco si discostano l’una dall’altra: “Sentimento di aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di quanto si desidera” (Enc. Treccani). Una di esse ritiene la speranza un cammino verso una meta.
Tale meta è precisa a livello di idea, in astratto, ma storicamente o concretamente non (ancora) reale.
Da tutto ciò ho dedotto una mia definizione: atteggiamento positivo e dinamico che mira ad ottenere un risultato desiderato, ma non ancora certo e quindi in speranza.
La speranza vive nell’alveo dell’incertezza e della precarietà da una parte e, dall’altra, della reale realizzazione di eventi (semplici o grandi) che, seppur solo in parte, devono essere sostenuti dalla nostra necessaria attività (manuale, intellettuale etc.).
Quando mi è stato chiesto di stillare questo articolo, il primo pensiero entrato nella mia memoria era l’antica antifona con la quale la Chiesa inneggia al Cristo: “o crux, ave, spes unica” – salve, o croce, unica speranza. Già la speranza non ha certezza e la meta attesa potrebbe frantumarsi o manifestarsi un inganno, ora l’antifona mi presenta la croce come unica via della speranza? Quindi la morte? L’annientamento?
Voglio vederci chiaro, perché nel mio cuore sperare significa protendere alla vita, non alla morte.
Ci provo.
Il Giubileo 2025 si accoda ai tanti Giubilei della Storia della salvezza, iniziati ai tempi degli Israeliti anticotestamentari.
Era, e lo è tutt’ora, un anno di grazie per l’uomo, destinatario di particolari doni dal Signore. Ma per ricevere un regalo bisogna anche avere uno spazio dove collocarlo (pensate i presenti che ci scambiamo).
Forse bisognerà sfrattare e eliminare un oggetto più vecchio, per dare spazio ad uno più nuovo. Il vecchio oggetto dovrà in un certo senso sparire, morire, affinché il nuovo trovi giusta collocazione.
La mia speranza nel tempo giubilare è protesa verso questa morte: se rigetto, se tolgo, se elimino dal mio essere l’oggetto “male” (lascio a voi le varie sfumature di questo aggettivo sostantivato), solo allora il bene potrà trovare posto, una giusta collocazione.
Più che la speranza di arrivare alla fine del Giubileo rinnovati, spero di viverlo con in mano “uno straccio ed un detergente” per ripulire quanto caduco in me e dare spazio alla luce dall’Alto. E, lo scrivo per me, ma anche per te… non temere se la prima mano di detergente porterà poco effetto. Ripeti.
Non stancarti. Abbi fede. Anzi, abbi speranza!
Le vie e le piazze scoppiettano di luci e suoni. Il ritorno dell’antico natale romano, caratterizzato dalla demonizzazione della notte e delle tenebre, è ormai un dato di fatto. Lo conferma anche la sostituzione delle celebrazioni della Vigilia e della Notte di Natale con i “Chirstmas Party” (ovvero panem et circenses).
Come vorrei che tutte queste innumerevoli luminarie possano attrarre la vista dell’uomo e quasi incantarlo per dirgli: “Guarda che le luci non sono soltanto un effetto estetico, una “danza della pioggia” contro l’invero; esse dimezzano il buio e rendono più luminosa la notte.
Sono simbolo della riflessione dell’uomo che potrà rendere felice sé stesso soltanto se si lascerà attrarre dal bene e trasformare la gioia del vedere le luci alla gioia del donare la luce. Che per noi cristiani è anche più facile, in quanto siamo già illuminati dalla Luce. La Luce che nel Natale irrompe nella storia e rompe le catene dell’immobilità, dell’impossibilità, del “no se pol”. La luce è piena e vera attività!
Papa Francesco, durante l’Angelus nel giorno dell’Immacolata, ha rinnovato l’appello alla pace chiedendo che almeno durante le feste di Natale siano messe a tacere le armi. Invito che condivido e sostengo totalmente.
Ma d’altra parte non solo la morte delle vittime innocenti, ma anche un’altra morte potrà portare la pace: la morte dell’egoismo, del protagonismo, dell’arrivismo, del suprematismo etc.
Questi atteggiamenti, una volta inchiodati sulla croce della morte, porteranno salvezza non solo nel Natale, ma anche nel tempo.
Chi sarà il primo a togliere la zizzania dal cuore e bruciarla sul fuoco? Speriamo che un primo ci sia!
Se l’uomo oggi trema davanti alle immagini di orrori bellici e terroristici, noi che viviamo su questo lembo di terra siamo ancora più preoccupati.
I nostri nonni hanno sperimentato una guerra (chi da soldato, chi da profugo…); i nostri genitori hanno vissuto una seconda guerra e tempi difficili prima e dopo di essa; noi non abbiamo visto le armi, le battaglie, le vittime per strada, ma i testimoni ci hanno raccontato. Conosciamo molte cose (non tutte, purtroppo o per fortuna, a voi il giudizio). Una cosa però fa convergere i pensieri nostri, dei genitori e dei nonni: che brutta è la guerra, ma molto peggio sono le tensioni, gli odi, gli scontri tra famiglie, tra nazioni che creano paura dopo le guerre… e che noi abbiamo sperimentato.
Ormai sono pochi i viventi dell’epoca e le generazioni di oggi hanno un senso di fraternità e solidarietà molto elevato. Eppure si trovano ancora tracce di rancori, condanne, umiliazione. La città della cultura (uso il singolare, perché il duale ci è stato imposto) o sarà un laboratorio di vero rispetto (non quello che attendi dall’altro, ma il rispetto che tu per primo porti all’altro) o sarà una città della cultura del ventre (o stomaco…).
E infine, se la speranza è un itinerario verso la meta auspicata, ma incerta, allora io spero con tutto il cuore che i fratelli e sorelle nella Fede riprendiamo l’itinerario comunitario.
Quello individuale, personale tra Dio e uomo, tra Padre e figlio, tra Maria Madre e figli c’è già. Lo vedo, lo constato. Manca l’altro, quello che non nega la presenza di tre Persone nell’unico Dio.
Che se il figlio ha una corsia preferenziale e intima con il Padre, il Cristo ne ha una più interpersonale per la famiglia dei figli e figlie (Chiesa).
E lo Spirito Santo gioirà perché potrà essere il legame ed il garante dell’unità nella diversità.
mons. Carlo Bolčina
(foto Siciliani/Gennari – SIR)
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